Dec 23, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

SPECIALE ORSON WELLES

UNA RACCOLTA DI SAGGI, INTERVENTI E TESTIMONIANZE PER APPROFONDIRE LA CONOSCENZA DI UNO DEI PIU’ GRANDI REGISTI DELLA STORIA DEL CINEMA

Welles Cagliostro 1Questo speciale è nato quasi per caso. Un piccolo ma grandissimo evento ha scosso il sonnacchioso agosto del 2013. L’edizione online del New York Times, infatti, pubblicò un articolo che mi sembrò, all’inizio, quasi uno scherzo: “Early Film by Orson Welles Is Rediscovered”. Leggendo il testo mi resi conto che un film inedito di Orson Welles era stato scoperto in Italia, presso Pordenone. I primi a rilanciare questo articolo furono quelli di www.wellesnet.com sulla loro pagina facebook. Seguirono, il giorno dopo, tutti gli altri nel resto del mondo. Paolo Mereghetti ottenne dal Corriere della Sera di poter pubblicare il suo articolo sull’argomento in prima pagina. Non mi stupì affatto che il più importante studioso italiano di Welles scrivesse l’articolo. Ma la vera scoperta avvenne il giorno 9 agosto quando lessi un articolo firmato da Gianni Rondolino. Oltre che a Too much Johnson, l’early film di cui parlava il New York Times, Rondolino faceva riferimento ad una persona a cui si doveva il ritrovamento del film: Ciro Giorgini, “uno dei massimi esperti del cinema di Welles in Italia”. Questo nome non l’avevo mai sentito ma se Rondolino lo definiva così dovevo fare in modo di poterlo incontrare. Non avevo mai sentito il nome di Ciro Giorgini ma nei mesi successivi all’agosto 2013 scoprì che lui conosceva bene il mio cognome. Decisi, dunque, che dovevo andare a vedere la prima mondiale di Too much Johnson a Pordenone (e per questo devo ringraziare la mia amica Sabrina Porfido e la sua famiglia che mi ha ospitato per diversi giorni ad Udine) e da allora tutto ha iniziare ad accadere. È così che ha preso forma lo Speciale Orson Welles che presentiamo ai nostri lettori. Questa decisione di intraprendere il viaggio per Pordenone ha creato una serie incredibile di incontri, contatti e conoscenze tutte inaspettate e incredibili talmente eccezionali che ancora oggi ho difficoltà a credere che siano avvenute.

La prima conseguenza diretta di questa visita a Pordenone è stata la conoscenza di Ciro Giorgini che mi disse che aveva visto per la prima volta i film di Welles grazie alla rassegna che l’Obraz Cinestudio di Milano aveva realizzato nel 1977. Rientrato a Milano, pensai che fosse necessario organizzare una proiezione di Too much Johnson. Parlai del progetto al Prof. Franco Prono del DAMS di Torino e della mia idea di creare uno speciale Orson Welles. Come diretta conseguenza di questo incontro riuscì ad organizzare un’intervista al regista Davide Ferrario che pochissimi conoscono come uno degli studiosi più seri di Welles. Il 6 maggio 2014, presso la Sala 400 del cinema Anteo di Milano, quel folle progetto di proiettare Too much Johnson prese vita. (per vedere il resoconto della serata clicca qui). In questa occasione il nostro gruppo di lavoro entrò in contatto con uno psichiatra di Trieste che, appositamente, venne a Milano per vedere il film. Giovanni Austoni ci confidò che il nonno, Giberto Severi, ebbe modo di conoscere di persona Welles durante la lavorazione di Cagliostro (Black Magic, USA/It, B/N, 105’, 1949) di Gregory Ratoff e che realizzò per lui alcuni ritratti e schizzi, uno dei quali è riprodotto proprio in questa pagina come logo ufficiale dello Speciale.

I contributi di questo Speciale sono composti da saggi critici e da interviste in formato audio e video. I nomi delle persone che hanno contribuito alla creazione di questo progetto sono: Alessandro Studer, Filippo Biagianti, Massimiliano Studer e Pamela Fiorenza. Ringrazio inoltre gli studiosi che hanno concesso a Formacinema il loro tempo per parlarci di Orson Welles: Ciro Giorgini, Davide Ferrario e Paolo Mereghetti.

Buona lettura, buon ascolto e buona visione

 

(Licenza Creative Commons·Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 3.0 Italia)

 

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MANK, IL PRIMO FILM D’AUTORE VISTO DA REMOTO

Mank di David Fincher cover

Di Alessandro Studer

Questioni di metodo e istruzioni per l’uso

Questo film è un complesso grande labirinto, ma non è un Labirinto senza centro[1]Ha un centro ben definito: il ritratto di un uomo sfortunato, vilipeso e incompreso. Un ritratto apparentemente nitido e finalmente messo al centro dello schermo. Attorno a questo ritratto è cresciuta una vera jungla intricata, oscura, piena di mancanze e di doppi fondi in comprensibili e inspiegabili. Tutto ciò ha costretto il sottoscritto a inventare una “scheda di riferimento”, chiamiamola così, che si è poi rivelata determinante per de-criptare le vie del labirinto. Questa scheda è stata chiamata Sommario delle sequenze che il lettore troverà in coda. Nella scheda il tronco centrale, nelle sue sequenze, viene chiamato PRESENTE, mentre a tutti i Flashback viene dato un numero progressivo. Purtroppo questa invenzione ha condizionato il metodo di lavoro dell’analisi critica e, imboccando le gallerie fuorvianti, ci siamo trovati completamente fuori dalla specificità dell’opera che abbiamo cercato di interpretare. Purtroppo abbiamo deciso di proseguire per andare fino in fondo. Segnaliamo quindi i due sentieri estranei che, volendo, si possono saltare. Il primo che il lettore incontrerà è quello riguardante Upton Sinclair; il secondo, nella parte finale, riguarda i due fantasmi che ingombrano (per la loro assenza) questo film. Anche le note sono in coda.

Mank: chi era costui? 

Sembrerebbe troppo facile e persino banale evocare il nostro più grande romanziere e il suo mitico e magico Carneade[2]Ma dopo tutto in fondo è il nocciolo della nostra tesi critica, attraverso cui cercare di mettere a posto le cose, si spera definitivamente. In breve si tratta del secondo tentativo di valorizzare il contributo di H. Mankiewicz al primo film di Orson Welles, Citizen Kane (Quarto potere, USA 1941)[3] e suo più grande capolavoro, dopo quello di Pauline Kael, datato febbraio 1971, in due puntate sul Magazine The New Yorker[4]Pauline Kael, per valorizzare il ruolo di Herman Mankiewicz e ridimensionare quello del viziato e capriccioso Orson, aveva costruito un complesso saggio analitico di critica puntuale e di ben 110 pagine! Il titolo era Raising Kane che in genere viene tradotto con Crescere oppure coltivare ma penso che il senso più giusto in italiano sarebbe svelare o analizzare. Ora nel corso del tempo, soprattutto dopo la morte di Orson Welles (ottobre 1985) ci si chiedeva: ma, in fondo, chi fosse questo H. Mankiewicz?[5] . Si è rivelato molto più importante il fratello Joseph, grande regista e anche produttore, grandi capolavori, numerosi Oscar: fratello che, insieme ad altri personaggi storici, compare più volte nel film di David Fincher. E intanto oggi ci si potrebbe chiedere come mai non risulta sia mai stato interrogato su tutta questa storia, essendo morto nel febbraio del 1993? Ora c’è anche da dire che Fincher pur seguendo la linea fondamentale tracciata da Pauline Kael ha tentato, con il poderoso e illuminato sostegno di Netflix, di rispondere con grande impegno alla domanda manzoniana, e questa volta però, partendo da uno scritto, la sceneggiatura del padre Jack rivista e adattata, con un film straordinario, ricco per difetti e pregi. Un film che ha lo scopo di rappresentarci la personalità, le sofferenze, i drammi personali e la genialità presunta di questo Carneade del grande cinema statunitense.

E dunque, poiché  il sottoscritto appartiene alla ormai sparuta schiera degli appassionati sostenitori del mago e prestigiatore “The One Man Band[6] del cinema del secolo XX, ritengo sia doveroso procedere in un’analisi critica del film Mank, cercando il più possibile di rispettare quello che uno spettatore non ingenuo può vedere e capire, senza fare confronti associativi-istintivi con il primo film-capolavoro di Orson Welles. Il che  è possibile soltanto se il film lo si vede al meno due volte (meglio se tre). E da qui si possono evidenziare i due grandi meriti  di Mank. Il primo è quello di aver costretto qualsiasi spettatore che ingenuamente  abbia cliccato su Mank in Netflix e che avendo superato, con il primo flashback, la tentazione di abbandonare subito il campo visivo, si senta costretto a vedere quanto prima questo dannato Citizen Kane. Lo ha detto in modo chiaro e deciso lo stesso regista, con la sicumera di chi dice: “E’ la prova evidente che, quanto meno, il soggetto e l’idea di raccontare la vita di un uomo con le testimonianze di coloro che hanno avuto rapporti con lui, non è e non può essere di Orson Welles”. Sempre lo stesso regista recentemente ha voluto aggiungere: “Ho visto i film che Welles ha realizzato con sceneggiature scritte da lui stesso, dopo il primo scritto da Mankiewicz, ma quei film non sono mai arrivati a quel livello…”. Vedere dunque e rivedere per credere o capire…

Il secondo merito è costituito dal fatto che inevitabilmente scoprire Citizen Kane spinge a interessarsi del cinema americano del periodo che in Mank viene continuamente evocato, a partire da Frankenstein (1931). Aggiungiamo che anche la scelta del B/N, contribuisce a spingere lo spettatore comune, ammesso il fatto di esser riuscito ad arrivare alla fine, a scoprire il valore di tutto il grande cinema USA prima che trionfasse il Technicolor con Via col vento[7].

C’è un terzo punto meritevole che però, a rigore, è un demerito. Il parere del sottoscritto è che David Fincher abbia reso un pessimo servizio al povero Herman J. Mankiewicz, al di là delle sue buone intenzioni. Ma rimandiamo questo punto al lavoro di analisi che faremo più avanti. Qui per concludere, possiamo utilizzare un’espressione lapidaria detta più volte e da più di un personaggio in Mank: che cos’è e/o qual è la magia del cinema? Noi fuori dal film e guardando il film possiamo dire con buona approssimazione, nell’avvicinarci alla profonda verità dell’opera d’arte filmica: il film compiuto, prodotto, montato e giunto in sala può rappresentare una visione del mondo, dei personaggi e le loro vite in un modo, spesso non esplicitato ma talvolta con forte evidenza, completamente diverso e lontano, se non opposto, rispetto alle intenzioni del regista. Ed è al momento del montaggio che questo fenomeno magico si manifesta[8].  La controprova è il fatto che, in sede di montaggio, molto spesso si scatena una vera lotta senza quartiere tra produzione e regista. Ma non è questo che qui  vogliamo sostenere, anche se ci rimanda al tema della autorialità che vedremo più avanti. Stiamo pensando alla guerra senza quartiere o meglio al conflitto interiore, anche inconscio, che attanaglia alla gola il regista, con se stesso e contro se stesso… Dopo di che è lo spettatore, quello critico, a dire la profonda verità che emerge dal film. 

Distorsioni percettive

Ad essere precisi e rigorosi questo film andrebbe  sconsigliato ai minori di 40 anni! Ma sempre per essere precisi, va detto che anche gli ultraquarantenni non se la passano bene entrando in Netflix, cliccando sul quadretto inconfondibile dove troneggia Gary Oldman. Questo film li costringe a vedere, oltre a Citizen Kane, anche Viale del Tramonto (Sunset Boulevard, 1950) di Billy Wilder ma soprattutto Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon, 1976) di Elia Kazan. Quest’ultimo, con numerose vecchie glorie, con la sceneggiatura di Harold Pinter che adattò il romanzo di Francis Scott Fitzgerald incompiuto e postumo. Due sono gli aspetti distorsivi che emergono subito dopo la sequenza introduttiva (che può evocare quella di Viale del Tramonto: fuga da Hollywood e intrappolamento in villa) e che mandano in tilt anche un cinefilo ottantenne: la fotografia in bianco e nero e i flashbacksA questi due aggiungerei, proprio in connessione ad essi, l’incredibile numero di personaggi costruiti e inseriti nella scansione filmica che ha un ritmo di crescendo wagneriano. Persino Mank, ci spiazza completamente, con tutta la sua condizione di alcolista impenitente, spesso si mette a correre e fa venire il fiato grosso anche a noi.

Il bianco e nero di Mank non è un bianco e nero, è un film a colori, solo due colori il NERO  e il BIANCO. Tutta la filmografia classica, dal sonoro in poi, è in realtà dominata da un terzo colore, il GRIGIO MA IL GRIGIO CON TUTTE LE SUE SFUMATURE[9]. L’assenza del grigio crea un grosso problema per lo spettatore: grande fatica nella distinzione e individuazione di molti personaggi.  Inoltre a ben vedere, nelle panoramiche d’interni ed esterni in notturna, è stato sviluppato un gioco di luci abbaglianti che aumentano la penombra e spostano la percezione dello spettatore sul senso dell’udito. Non crediamo possa essere un errore. Naturalmente il digitale ha snaturato comunque il linguaggio cinematografico che è nato e si è fatto grande con la pellicola impressionabile[10]. Ma qui è evidente la firma del regista. 

Azzardo una mia interpretazione. L’unico che gode di momenti di grigio è Gary Oldman cioè Mank come dire protagonista ed eroe della storia, che ha come confronto Marion Davis che spicca e, potremmo dire, esce dallo schermo e si pianta addosso allo spettatore con tutto il suo bianco brillante e luccicante. Ne viene fuori un amore platonico all’interno di un ambiente storico che di platonico non ha proprio niente[11]. Tutte le sequenze degli incontri tra i due brillano e sono momenti di godimento percettivo per chi guarda… E’ d’obbligo aggiungere che, in tutte le sequenze del tempo presente che esamineremo più avanti, spicca e s’impone, rispetto al resto, la figura diabolica e persecutoria di Orson Welles, compreso il duello finale.

Ma, a pensarci bene, si può anche dire che tutte le sequenze di incontri inter-individuali di Mank sono chiaramente percepibili, salvo il fatto di non sapere chi  è l’interlocutore del momento. L’obiettivo è evidente: sorvolare (nel senso letterale del termine) su tutti i personaggi storici e le loro affermazioni, azioni e quant’altro. L’abbigliamento e l’età (insieme al bianco e nero) fanno si che è impossibile verificare la verosimiglianza dei personaggi ai quali vengono spesso attribuiti eventi e affermazioni totalmente inventate non sempre verificabili, per es. tramite Wikipedia. Nel percorso di analisi vedremo meglio di chiarire questo punto, qui occorre dire che la distorsione percettiva più irritante riguarda Upton Sinclair che è l’unico personaggio storico rilevante e decisivo che compare appena per pochi secondi. Non se ne capisce il motivo visto che è l’elemento storico centrale nella trama del film, cioè l’aspetto politically correct. Ed è anche evidente il riferimento, c quasi esplicito, alla storia presente degli USA. Come dire Upton Sinclair like Joe Biden. Il che, in questo caso, non è certo un merito perché Hollywood ha sempre avuto come dominante una cultura di fondo di sinistra, vicino all’area Radical Schic del Partito Demaocratico. Qui sarebbe stato preferibile alludere alle situazioni specifiche del tempo storico cioè non omettendo la presenza storicamente determinata di Sergej Michailowich Ejzenstejn a Hollywood (1930-32) e i suoi rapporti con Upton Sinclair. Di questo più avanti.

I flashback sono il vero colpo di genio di David Fincher. Nel sonoro non s’era mai visto l’uso della terminologia usata nelle sceneggiature direttamente sullo schermo[12] . Sembra essere un omaggio al cinema muto e, anche se non è la stessa cosa, alle didascalie che oltre ai dialoghi indicavano i luoghi delle azioni. Azzardo un libera associazione:  i due grandi capolavori di David Wark Griffith, La nascita di una Nazione (The Birth of a Nation) e Intolerance , ma in particolare il primo dove ogni fase del percorso viene indicato con estrema precisione, in special modo i dettagli riguardanti Abraham Lincoln. Ma qui lo scopo non è “educativo” . cioè a favore dello spettatore (come lo era per Griffith), anzi rientra perfettamente nella scelta creativa di confondere lo spettatore. 

Basti un solo esempio: il Flashback sui funerali di Irving Thalberg, durata 2’! Sfido chiunque a sostenere di aver capito di chi era il funerale. E’ impossibile capire che è la morte improvvisa del “cattivo” della storia, un personaggio (ben altrimenti presentato nel film di Kazan) che è presente in quasi tutti i flashbacks. Non solo ma, tanto per dire, è colui che fa perdere Upton Sinclair  con delle fakenews e che minaccia continuamente il nostro Mank.  Cosa che è tutta da verificare ma accettabilissima se non fosse che, alla fine, risulta che il “cattivo vero”, non è W.R. Hearst, non è L.B. Mayer, non è Irving Thalberg, ma è proprio Orson Welles, “il ragazzo dal muso di cane”[13]! Infine abbiamo calcolato che i Flashbacks occupano più del 60% del film a fronte di tutta la parte che riguarda il lavoro di Mank nel Ranch: che male c’è?, nessun male però qualche problema eccome se c’è! Più avanti, vedremo quale…

Prima di esaminare più da vicino questa ultima opera filmica di David Fincher ci corre l’obbligo di fare una breve riflessione sulla condizione del cinema in generale al momento e in prospettiva e su quanto tutto ciò condizionerà lo sviluppo del linguaggio cinematografico. Netflix dopo essere stato “snobbato” da Cannes un paio di anni fa, si è imposto a livello planetario e ha prodotto una catena, in continua crescita, di imitatori (Amazon Prime e la RAI). 

Rimaniamo nostalgici legati al grande schermo in sala, ma per gustare a fondo il cinema e il suo singolo e specifico prodotto credo che la piattaforma streaming batta tutti, forse anche i DVD e i Blue Ray. Ogni film può essere visto e rivisto come se ogni spettatore avesse a portata di mano una vera e propria moviola. Questo vuol dire che questo film qualche anno fa non sarebbe stato neppure concepibile, perché in sala avrebbe fatto il deserto. La contro-prova la si ha vedendo il citato Gli ultimi fuochi che forse qualche legame indiretto con Mank ce l’ha, dove Kazan ha scomodato uno stuolo di  grandi attori degli anni ’40 più i due “giovani leoni”, Robert De Niro e Jack Nicholson (in uno splendido e anomalo quadretto pugilistico) per portare spettatori nelle sale: nonostante ciò è stato un flop. In due parole: in questa nuova prospettiva ogni spettatore è virtualmente chiamato a diventare critico avendo a disposizione tutti gli strumenti della critica e molti strumenti o meglio pochi ma essenziali di una qualsiasi casa di produzione nella fase conclusiva. Manca solo lo strumento creativo principe della Settima Arte: il montaggio. In breve, il film in sala lo si può vedere solo una volta, alla fine gli spettatori vengono cacciati letteralmente, quando fino a tutti gli anni ’50 si poteva entrare alle 15 e uscire a mezzanotte!

Herman Jacob Mankiewicz, chi era costui?

Mank, arrivati alla fine con i titoli di coda non ci dà nessuna risposta. Ci dà di più, molto di più, Pauline Kael con il suo Raising Kane, ma qui è bene restare sul nostro sentiero già di per se complesso e accidentato. La mania (il vezzo o la scusa per non pagare il dazio) di non dare spiegazioni è una specie di firma personale del regista[14]Quindi pare evidente che i Flahbacks costruiscono un film separato, sia pure intrecciato con quello del sofferto lavoro alla sceneggiatura, film che dovrebbe darci un ritratto storico somigliante alla persona cui è dedicato il film. Già il titolo ci dà non pochi interrogativi.  Siamo al primo Flashback, il più lungo, della durata di 14’ ESTERNO STUDI PARAMOUNT – GIORNO 1930. E’ una sequenza topica perché ci presenta il protagonista con i suoi difetti e l’unico pregio, le battute. I difetti sono: il gioco d’azzardo (5000 $ a testa o croce) e l’alcool ma qui ancora senza dipendenza, sposato con una vittima sacrificale, “la povera Sara” e con due figli che non vede mai.

“Io ti conosco Mankiewicz!” dice la Davies sul rogo dei Pellirosse (cretini e ridicoli che non hanno mai usato roghi in stile “caccia alle streghe” mai poi mai con le donne che semmai trasformavano in Squaw) quando lo vede entrare trionfante nel set dove ci sono tutti (Mayer, Thalberg, Hearst). Herman risponde: “Ti prego chiamami Mank!”.  Sarà vero? Il fratello che lo chiama ogni volta, ovviamente, Herman, era la persona più indicata per saperlo ma non si trova traccia di una sua testimonianza. Sarebbe stato interessante chiarire questo punto perché il nostro Herman, come abbiamo già accennato in nota, dopo la gloriosa fase di corrispondente e co-fondatore del Magazine The New Yorker,  si è trasferito a Hollywood presentato e supportato dal commediografo e sceneggiatore di punta come Ben Hecht. E’ facile scoprire come molto spesso abbia lavorato in film importanti senza pretendere l’accredito ufficiale, insomma una sorta di “prestanome a pagamento”. Oppure per essere più generosi, un Ghost Writer, o addirittura un musiliano Uomo senza qualità, che sarebbe un vero complimento.

Si può anche pensare che sia una invenzione di David Fincher per rendere più simpatico un personaggio decisamente sgradevole e poco corrispondente a quello che potrebbe proporsi come “genio e sregolatezza”, da confrontarsi ad esempio con un Francis Scott Fitzgerald, che sembra essere l’intendimento non tanto nascosto di Fincher per contrapporlo al genio gradasso, arrogante e iroso del “ragazzo dal muso di cane”. L’incontro con Marion Davis (la bravissima attrice Amanda Seyfried), conclude il Flashback ma tutta la prima parte ci presenta il gruppo di lavoro creato da Ben Hecht ma animato e governato da Mank  che inserisce e presenta Charles, detto Charlie, Lederer  (il nipote in linea diretta di Marion Davis). Parentela questa che il regista ci presenta molto più avanti, e bisogna essere molto attenti, con le orecchie, perché c’è una dannata somiglianza nei vestiti e nel viso tra questi e Joseph Mankiewicz. 

Una moltitudine di personaggi storicamente veri presentati, nome e cognome, con flash di pochi secondi. Segue il siparietto curioso della riunione nell’ufficio di David O. Selznick[15] il quale seduto ha accanto a se, in piedi come un “salame”, nientemeno che Joseph Von Sternbergh (dopo L’Angelo Azzurro aveva portato a Hollywood Marlene Dietrich)! Anche questo presentato agli astanti. Argomento della riunione, competere adeguatamente con il successo di Frankenstein[16] e Mank, dopo averlo presentato, spinge Charlie a esporre la sua idea, questi in breve propone  un Prequel[17] mescolato con riferimenti a Nosferatu il vampiro di F. W. Murnau del 1922, molto apprezzato dal grande produttore (anch’egli ebreo) della MGM. In Mank, per sua fortuna, non comparirà più. 

Il nostro percorso esplorativo all’interno di un labirinto con preciso centro deve fare un salto per non girare a vuoto. Il salto riguarda il secondo flashback che è tutto dedicato a Louis B. Mayer il vero Patron della MGM. Di Samuel Goldwyn nulla si dice e nulla si sa[18]: è un pezzo splendido e meritevole di un commento a parte.

Mank  socialista, antifascista, profeta di sciagura (la sua)

Siamo al terzo FLASHBACK, della durata di CIRCA 14’: INTERNO SALA RIUNIONI SAN SIMEON (CASTELLO DI HEARST) – NOTTE 1933.  Sommato al precedente (totale: circa 30’) costituisce, certo insieme al resto, un ritratto di H. Mankiewicz, detto Mank, poco credibile e, a quanto pare, per molti molto godibile. Questo Flasback è tutto realizzato nel “Castello” di Hearst, San Simeon, del tutto “verosimile” a quella chiamata Xanadu che noi troviamo descritta ampiamente nel film di Welles. E’ questo un bel paradosso cinematografico! Il vero storico-concreto è tutto al contrario: Fincher ha ricostruito (piuttosto sommariamente) San Simeon in modo verosimile ma per far capire che Welles ha ricostruito in modo verosimile quella villa (Xanadu in Citizen Kane) che non aveva mai visto, ma solo sfruttando le informazioni che gli ha dato Mank e cioè che quello vero, non quello interpretato da Gary Oldman (che ne sa quanto noi spettatori), conosceva a menadito quella villa! 

Si potrebbe dire, tutto falso! Oppure, è questa la magia del cinema! Detto questo nei 14 minuti del flashback c’è un po’ tutto il nocciolo della questione Orson Welles. Intanto c’è da dire che se parliamo del “verosimile filmico”, tutto depone a favore del “ragazzo”, il quale, nel 1940, forse quel San Simeon può averlo vista veramente o visionata sui vari cinegiornali della catena Hearst. E’ Fincher che ha dovuto inventare tutto (siamo nel 2020), sulla falsa riga di Pauline Kael e di suo padre: Orson dall’aldilà risponderebbe F for Fake! [19]. In più la ricostruzione di Fincher è decisamente raffazzonata rispetto a quella che ancora oggi (sempre su Netflix) si può vedere guardando Citizen Kane

Torniamo al flashback. 

Prima parte: panoramica sull’enorme tavolata. Tanta gente in bella vista, è Mank  stesso che, a un certo punto, prende in mano la discussione a viva voce sul nazismo (movimento ridicolo di breve durata…). Hearst lo incoraggia e Mank non si fa pregare. Dal nazismo si passa al comunismo e qualcuno afferma la necessaria lotta contro il comunismo, della serie il nazismo è una buffonata e finirà presto. Ed ecco che spunta il nome di UPTON SINCLAIR che si presenterà alle elezioni come Governatore della California. E’ un comunista! A questo punto abbiamo un Mank sobrio, serio ed estremamente conciso: Upton Sinclair non è un comunista, è uno scrittore socialista! e con un motto semplice e  geniale, spiega qual è la differenza tra le due concezioni: “Nel socialismo tutti dividono il benessere, nel comunismo tutti dividono la povertà”.

Prende piede un’allegra discussione su Roosevelt appena eletto in cui si inserisce brillantemente Marion Davis che, dopo qualche battuta, fa una gaffe terribile sul Presidente (problemi urinari) si morde le labbra e esce  di corsa seguita da Mank.  La scena si sposta nello zoo. Dialogo tenero della serie amore platonico e anche intesa profonda sulla metafora delle anime gemelle e ingenue che dicono: “il re è nudo”. Peccato che la chiusura sia una incredibile fakenews! La storia raccontata da Mank  sulla avventura messicana di Upton Sinclair e la censura assurda del nome di Sergej Michajlovic Ejzenstejn 

Upton Sinclair, l’inciampo ovvero il momento più oscuro del film 

Seguono dopo il terzo, il quarto, il quinto e il sesto flashback, tutti  intrecciati con il presente nel ranch: protagonista lo scrittore socialista militante e famoso come scrittore, avvicinabile a una dimensione di importanza tra Jack London e John Steinbeck. Siamo nel 1934 e in Mank sembra essere, a ben guardare attentamente nei risvolti della narrazione filmica, una sorta di movente trasparente della sua personalità, che si muove e si comporta come socialista autentico, deluso dal grande socialista non autentico e opportunista, appunto Upton Sinclair. Si potrebbe dire ancora F for Fake! La storia vera è tutta un'altra, va retrodatata e non si capisce come sia stato possibile che il regista sia riuscito a oscurarla per distorcerla allo scopo di trasformare H. Mankiewicz in un eroe incompreso che ha tentato di combattere il dominio delle Majors hollywoodiane invano, salvo a lasciare una sceneggiatura come testimonianza di questa battaglia perduta ma anche come denuncia. Il tutto poi manipolato dal “ragazzo dal muso di cane”. Non possiamo approfondire ma è doveroso qui riferire quanto ha descritto con estrema cura e documentazione una testimone oculare, di grande cultura come Marie Seton, la biografa di Sergej M. Ejzenstejn[20]

In sintesi estrema il problema è questo. La infelice e infausta avventura americana, ben nota, di Ejzenstejn si è conclusa in Messico. Le date sono le seguenti. Ejzenstejn arriva in USA (con Tissè e Alexandrov, i suoi due collaboratori inseparabili) alla fine di Maggio 1930, con un contratto Paramount, per un film da realizzare tratto da Una tragedia americana di T. Dreiser[21]. La rottura del contratto avviene per la campagna stampa contro la presenza a Hollywood del “comunista giudeo”. Giudei possono andare bene se rispettano il puritanesimo profondo degli USA ma se comunisti no. Ed è soprattutto la fanatica attività del Maggiore Frank Pease, presidente dello sconosciuto Hollywood Technical Directors Institute, a influenzare le decisioni della Paramount. Costui a un certo punto inviò a Jesse Laski (produttore Paramount) il 17 giugno, il seguente telegramma:

Se i vostri Rabbini e sapienti giudei non hanno il coraggio di dirvelo, e se voi non siete abbastanza intelligente per capirlo da solo, e visto che mostrate così poca lealtà verso questo paese, che vi ha dato più d’ogni altro nella vostra storia, e che non avete potuto farne a meno, quindi di far venire qui un tagliagole, un cane rosso, come quell’Eisenstein; io vi informo che faremo ogni sforzo per ottenere che egli sia espulso dagli Stati Uniti. Non vogliamo più propaganda rossa in questo paese. Tentate forse di tramutare il cinema americano in un centro comunista? Non occorrerà un Sansone per rovesciare un tempio Bolscevico che voi state erigendo, né ci vorrà molto tempo. Mene mene tekel.  Maggiore Frank Pease[22]

Ma la Seton aggiunge: “Il telegramma fu pubblicato anche sul Motion Picture Herald, il 28 giugno 1930… Il Maggiore Pease, un “patriota di professione”…Contro “Eisenstein messaggero giunto a Hollywood dall’Inferno fece circolare, con quel titolo un libello di 24 pagine, una pubblicazione diffusa in California e poi in tutti gli Stati Uniti”[23]

Charlie Chaplin aiutò Ejzenstejn organizzando un incontro con Upton Sinclair, il quale, uomo del Sud e sposato a una donna ricchissima, discendente da una famiglia  di proprietari terrieri rovinati dalla Guerra di Secessione e poi diventati speculatori finanziari. Costei, Mary Craig Sinclair, donna di grande carattere (Il povero Upton ne è ammirato e intimidito) è  subito pronta, nonostante la situazione,  a sostenere finanziariamente il progetto, prevedendo il sicuro successo del primo film americano, anche se girato in Messico del regista de La corazzata Potemkin che aveva sbancato il boxoffice a New York e poi negli USA, alla faccia del becero Maggiore Pease, in quattro e quattr’otto organizza un pool di finanziatori, di cui lei ha la maggioranza, sottopone al povero e ingenuo Sergej un contratto capestro che lui, non avendo alternative,  al settimo cielo, non legge i dettagli e firma tranquillamente [24]. La storia prosegue con la partenza per il Messico nel dicembre 1930 e si conclude malamente dopo più di un anno. Marie Seton scrive:

Infine a metà gennaio del 1932 avvenne quello che Eisenestein temeva. Upton Sinclair ordinò al regista di arrestare la lavorazione di Que viva Mexico, nel momento incui egli stava per iniziare l’episodio della soldadera. Dopo aver girato il prologo, i tre episodi precedenti e l’epilogo. Tutto il girato era nelle mani di Sinclair, il quale non voleva più sentire ragioni. E così Eisenstein si trovò paralizzato e senza mezzi, senza aiuti concreti, per di più in un paese che non aveva rapporti diplomatici con l’URSS[25]

E non è finita. Bisogna precisare un particolare importante. Con regolarità veniva mandato a Pasadena (California) tutto il materiale girato, che veniva esaminato da tecnici e montatori. Abbiamo visto come aveva concepito il film Ejzenstejn un saggio-affresco fotodinamico del Messico mistico-popolare tra passato e presente, in sei episodi. I tecnici di Sinclair non era molto ferrato in fatto di cinema e hanno subito pensato: “Ma come, 6 film? Siamo pazzi?”. Tant’è che senza dire nulla all’autore, stavano già preparando un film completo di circa 70’ il cui titolo sarà Lampi sul Messico, utilizzando il girato del primo episodio.

E siamo alla data di partenza dell’11 febbraio 1932, Ejzenstejn è depresso e sconsolato, Sinclair e moglie hanno tutto il girato messicano (60.000 metri di pellicola) e si impegnano per iscritto a spedire a Mosca il materiale per il montaggio.  Cosa che non avverrà mai. Intanto però si diffusero in USA le notizie su tutta questa storia, allarmando soprattutto personaggi famosi, come T. Dreyser, C. Chaplin, nonché critici e giornalisti. Si formò una pressione da parte dell’elite culturale, poi un’onda di sostenitori e di fans che, a fronte del trattamento ricevuto dal regista da parte del gruppo familiare Sinclair, finì per tramutarsi in un vero movimento spontaneo di protesta. La Seton, dopo aver descritto in dettaglio tutte le fasi del lavoro effettuato in Messico, incluse le varie sceneggiature curate sotto dettatura da Gregory Alexandrov, a un certo punto cita per intero Il Manifesto di pubblica protesta scritto e pubblicato sulla rivista Experimental Cinema dal suo direttore Seymour Stern (poi ripreso dai quotidiani), in cui per un’intera pagina viene riassunto lo schema grandioso di Que viva Mexico! A fronte del misero Lampi sul Messico abusivamente montato con la supervisione di Upton Sinclair[26].

Ecco dunque che i finanziatori del film era ansiosi di incassare finalmente quanto avevano speso  annunciarono l’anteprima pubblica a New York. E a questo punto la protesta diventò internazionale, via Messico, Spagna e URSS. E qui bisogna precisare che Upton Sinclair aveva ottimi rapporti con l’Unione Sovietica e, a onore del vero, negli scambi burrascosi che seguirono per tutto l’anno1933, ha trovato riscontro negli ambienti sovietici del cinema che temevano la genialità e libera creatività di Sergej Michailovic[27]. In più, sempre per par condicio, è importante ricordare che Sinclair usò il suo specifico strumento professionale, scrivendo un libro su tutta la faccenda[28]. Nella prima edizione aveva attribuito tutta la responsabilità alla moglie Mary e a suo fratello (sempre presente in Messico). Sinclair difese Sergej fino all’ultimo anche con un esaurimento nervoso, simile a quello che stava subendo a Mosca Sergej ormai costretto a insegnare cinema all’Università, molto lontano da un set cinrmtografico. Nella primavera del 1933 avviene la prima proiezione pubblica di Lampi sul Messico che causa un delirio di proteste, poi passano mesi e i proprietari del girato, pensando che ormai tutto sia finito nel dimenticatoio, annunciano la prima newyorkese per il settembre 1933. La polizia sconsiglia la proiezione pubblica che avviene in privato, mentre fuori una folla di sostenitori del grande regista lancia volantini in cui è scritta una lettera aperta a Upton Sinclair in cui si chiede che fine ha fatto Que viva Mexico!

Comunque il film passò. I sostenitori di Eisenstein si sentirono battuti. E la polemica si smorzò: anche perché Upton Sinclair aveva volto la sua attenzione nel campo politico, dato che in quel periodo si preparava a presentarsi candidato per la carica di Governatore della California, alle elezioni del 1934.[29]

E’ in queste condizioni che Upton Sinclair si presenta alle elezioni  per Governatore in California nel 1934, con una moglie furiosa per il danno economico subito, ma anche per motivi di tipo religioso, moralistico. E la sua sconfitta non è certo dovuta a una presunta propaganda faziosa orchestrata da Mayer e Thalberg, della quale non è facile riscontrare tracce. Fu la diffusione nelle sale-cinema della California del film Lampi sul Messico con la firma di S. M.  Eisenstein a decretarne la sconfitta.

C’è però un piccolo dettaglio tutt’altro che marginale da aggiungere per completare il triste quadro. Marie Seton, a seguito di sue richieste di chiarimento, nel 1950, ha ricevuto una lettera scritta da Upton Sinclair che riportiamo in parte

Eisenstein fece venir meno la fiducia che avevamo in lui, dopo aver speso il denaro affidatogli inizialmente ci scrisse di inviargliene dell’altro, altrimenti non avrebbe consegnato il film… ci fece questo più volte e capimmo a un certo punto, che egli intendeva continuare a stare in Messico per non dover tornare in Russia. Erano dei trotzkisti e degli omosessuali…[30]

Dunque ripetiamo che la sconfitta di Upton Sinclair non ha nulla a che vedere con quanto ci vuole far credere il film di David Fincher. Inoltre  l’ambiente hollywoodiano in quel momento non aveva nessun interesse a sostenere il candidato repubblicano, meno che mai a mettersi contro la famiglia Sinclair, ben inserita nell’ambiente. E quindi si può qui pensare che il cittadino Kane, pur ispirato a Hearst sembra mostrare aspetti della personalità di Upton Sinclair. Quindi possiamo dire che Fincher, di fronte alla complessità della situazione storica reale, possa aver pensato di semplificare al massimo, azzerando gli eventi storici ben documentati da Marie Seton, inventando una verità storica falsa ma verosimile ad uso e consumo di un personaggio veramente poco credibile, un presunto geniale uomo senza qualità che, a parte una grande quantità di scritti da ghostwriter, avrebbe scritto la sceneggiatura “madre” di Citizen Kane di 327 pagine, il suo capolavoro! A questo proposito è ben noto che nel cinema in pellicola (la cara vecchia pellicola) una pagina corrisponde a un minuto di tempo del film e quindi, in questo caso, a 5 ore e mezza di durata[31]. E c’è dell’altro, l’americanista Giuliana Muscio, rileggendo le sceneggiature seguite alla prima[32],  ha spiegato molto chiaramente come Mank aveva creato il personaggio principale seguendo una impostazione alla F. Scott Fitzgerald (tra il Grande Gatsby e The Last Thycoon), su una linea di confine tra legalità e illegalità, affari e malaffare: ben diverso dal personaggio che poi ha messo nel film l’autore, Orson Welles[33]Nel quinto flashback poi Fincher ci propone un Mank straordinario eroe ma sfortunato e sorprendentemente vitale all’interno degli Studios MGM che corre a inseguire Marion Davis, dopo aver avuto uno scontro duro con Thalberg: sembra quasi il Brad Pitt di Tarantino!… Marion Davis lo delude con celestiale fermezza. Mank non riuscirà a salvare il candidato democratico e perderà pure un bel gruzzolo di dollari perché vuole scommettere sulla sconfitta del candidato repubblicano! Tutto questo dovrebbe essere la causa di un uomo morto dentro, incompreso ed emarginato, che, come ci dicono le ultime immagini, dopo questa sua “grande opera”, non farà più nulla e continuerà ad autodistruggersi fino a morire pochi anni dopo, seguendo, si fa per dire, le morti premature di Irving Thalberg e F. Scott Fitzgerald. 

Nel presente del Ranch: unità di tempo di luogo di azione

Abbiamo richiamato soltanto a questo punto il principio aristotelico del verosimile come fondamento base dell’ ars drammatica perché questo è un aspetto che si perde completamente dopo i primi 12’. L’assoluta predominanza dei flashback, anche dal punto di vista della dinamica spettacolare, fa perdere di vista il tema principale che è il genio Mank paralizzato in un luogo chiuso a creare il suo capolavoro, con due donne a sua disposizione, Fräulein Frieda infermiera e soprattutto Rita Alexander la dattilografa. Questo terzetto resta in funzione fino alla guarigione di Mank. Poi nel finale, quando l’infermiera non si vedrà più,  rimarrà solo la dattilografa inglese fino all’ultimo momento quando l’Orson furioso prende la macchina e torna a Hollywood e Mank contento e soddisfatto la abbraccia senza rendersi conto che la giovanissima Rita è al settimo cielo, non certo per la vittoria di Mank su Orson, ma per la notizia  del fidanzato salvo dopo l’abbattimento del suo aereo eroe della battaglia aerea dove gli Spitfire della RAF hanno fatto a pezzi i Messersschmitt tedeschi della Luftwaffe. Diciamo che qui David Fincher ci mette la sua firma facendoci percepire visivamente tutta l’indifferenza americana per la tragedia che si stava consumando in Europa in quel momento e proprio sull’Inghilterra. Ma proprio all’inizio la piccola Rita, ottima dattilografa, abbandona Mank che con una battuta cinica sull’inferiorità area inglese la fa fuggire piangente. 

Dunque potremmo dire che il film Mank ha durata equivalente a quella della cosiddetta Battaglia di Inghilterra (10 luglio – 31 ottobre 1940). Ci si potrebbe obiettare che non c’è unità di tempo, ma qui il tempo reale è quello che si muove al di fuori del ranch dove invece filmicamente è sospeso sulla scrittura di 327 pagine, e il tempo si muove nei ricordi di Mank con la relativa scansione delle date e dei luoghi. 

Tutto succede accanto al letto clinicamente attrezzato. C’è un via vai continuo e tutto si svolge come se fosse una pièce teatrale: Mank è di poche parole, sono gli altri che parlano (soprattutto l’effemminato John Houseman) e poi ci sono le telefonate e le visite speciali di Orson e della “povera Marta”. Viene da pensare che il film avrebbe potuto essere concepito e realizzato con una perfetta unità “aristotelica” sviluppando solo la parte che noi abbiamo indicato con il termine PRESENTE. Non è possibile aprire qui una discussione su questo problema che, derivando dalla Poetica di Aristotele, attiene ai principi della Tragedia greca che giravano attorno al concetto di eikos  (verosimile), cjoè che tutto ciò cui assistevano gli spettatori del teatro greco, doveva manifestarsi come se fosse vero, accadendo proprio lì nel teatro e in quelle ore, solo in questa dimensione poteva favorire, tra gli spettatori, la Katarsis (liberazione). Per il cinema Galvano Della Volpe ha proposto un aggiornamento ipotizzando il concetto di verosimile filmico[34], il cui respiro dinamico(movimento/tempo) e panoramico (profondità di campo) consente una sorta di metamorfosi dei principi aristotelici, senza cambiarli nella sostanzaIl film di Alfred Hitchcock Nodo alla gola (1948) con unico piano sequenza in unica stanza e nel tempo del film rispetta rigorosamente il principio dell’eikos. Ma nel cinema si può legittimamente ampliare e adattare tale concetto, un esempio splendido è proprio Mezzogiorno di fuoco (1952) di Fred Zinneman. Moltissimi western (il cui intreccio è sempre stato tragico) hanno seguito questo principio. Ricordiamo anche un esempio recente, Carnage (2011) di Roman Polanski.

Invece abbiamo un film maledettamente complicato che sfida la pazienza dello spettatore con intrecci poco probabili e poco spiegabili. Ma restiamo nella sensazione che resti un film eccezionale e forse fondatore di un nuovo modo di fare cinema, nel bene e nel male[35]. Non è chiaro il progetto intenzionale di Fincher ma è sicuro l’effetto ottenuto che è quello di realizzare un’opera cinematografica lineare per quello che appartiene all’evento nudo e crudo di uno scrittore messo nelle stesse condizioni di J. Stewart ne La finestra sul cortile: tronco base di unità lineare che è  intrecciato con un groviglio di ricordi presentati in un modo che si potrebbe definire caleidoscopico e a tratti immaginativo-onirico. I flashback espongono la memoria attivata del protagonista a per l’incarico ricevuto e c’è da sottolineare che questa memoria, andando a rivedere il nostro sommario, ha un andamento irregolare e confusivo ma temporalmente circoscritto: parte dal 1930 e si ferma al 1937. Si chiude con la sequenza conclusiva in cui Hearst racconta a Mank la storiella della scimmietta e del povero suonatore ambulante. La scimmietta è Mank … 

Dopo di che se il tronco lineare inizia nel luglio 1940, mancano 3 anni giusti… Anche in questo caso abbiamo un ellissi temporale senza riferimenti. E speriamo che il cinema del III millennio si liberi da questo comodo viziaccio!

 

Orson Welles versus Mank: duello finale all’ombra del ranch

A partire dalla fine del sesto e con il settimo flashback fino ai titoli di coda, il film assume improvvisamente un accelerazione sempre più forte e inafferrabile per uno spettatore anche attento e in grado di percepire i dettagli delle inquadrature (i piani sequenza, presenti nei flashback, scompaiono completamente). Si ha uno percorso accelerato che può ancora ricordare Griffith, ma qui è quello di Intolerance[36] .

Il rimbalzo continuo tra flashback e tempo presente ha un sicuro effetto subliminale che potrebbe produrre una sorta di ipnotico convincimento nello spettatore della tesi del film. E’ evidente l’ intenzione un po’ subdola del regista di proiettare nella mente dello spettatore un’idea immaginifica di un Orson Welles  fortunato e capriccioso ma abile sfruttatore delle informazioni ricevute da Mank.  Siamo alla fine di un percorso molto accidentato e diciamo la verità, molto poco spettacolare e/o accattivante. Gary Oldman è sicuramente molto bravo ma la regia gli ha imposto tratti di supponenza fusi insieme a sottomissione servile, quella del Buffone di corte cui è consentito tutto anche quello di sputare-vomitare sui piatti aurei su cui spesso mangia. Ma per quanto riguarda la supponenza, soltanto  nella seconda o terza visione, ci si accorge che il film ci presenta un protagonista che mostra di avere una solida e profonda cultura, in un mondo tutto centrato sul dollaro e i festini dei thycoon. Mank  più volte  evoca la figura di Don Chischotte della Mancia e Dulcinea e Sancho e soprattutto I mulini a vento!. Questo nome legato all’autore Miguel de Cervantes risulta totalmente sconosciuto alla bella Marion ma quando Mank lo evoca nell’ultimo flashback  (che è spezzettato in tre parti e intrecciato colle altrettante sequenze del presente)  dichiara a tutti: “grande libro che tutti voi conoscete ma che non avete letto!”. A questo si deve aggiungere un scambio di battute con Orson quando arriva tutto contento a dire che ha abbandonato, come richiesto dalla RKO, tutto il lavoro su Cuore di Tenebra di Joseph Conrad per dedicarsi all’ottimo lavoro di Mank. Questi inquadrato sul letto e con voce sempre roca, commenta: “Mah! Un opera minore…”[37]. Peccato che poi questa opera minore sia stata utilizzata da Francis Ford Coppola a suo modo, per il suo capolavoro Apocalipse Now. Senza alcuna ironia e ripercorrendo  avanti e indietro le sequenze nel ranch dove Mank, bloccato a letto e ingessato, scrive il suo capolavoro, dobbiamo dire quanto segue. La figura che spicca e esce dallo schermo e proprio quella di ORSON WELLES (nella perfetta interpretazione di Tom  Burke). Straordinario! Sembra un monaco uscito dal Nome della Rosa (il romanzo non il film) appare in sogno a Mank (Banquo a Macbeth?) con una spettacolare conclusiva  risata sadica e poi alla fine, nel duello (inquadratura con ripresa dal basso) è una specie di angelo sterminatore. E, in effetti, alcune inquadrature a viso pieno, con barbetta, gli danno proprio le sembianze di un cane che ringhia. Probabilmente la figlia (l’ultima avuta da Paola Mori) Beatrice potrebbe protestare e con buone ragioni. Ma pensiamo al valore enorme che ha sempre avuto nel cinema (ma anche nella letteratura e nel teatro) il personaggio del cattivo, senza il quale il buono non può accalappiare i sentimenti dello spettatore. Il “botto” della cassa di bottiglie di wisky ha un effetto di sveglia sullo spettatore e qui Orson Welles si impone come un gigantesco boyscout (Esercito della salvezza) purificatore. 

Qui, in quanto spettatori critici, quale che sia la nostra età, siamo costretti a valutare il confronto, a capire meglio chi sono i due duellanti, ambedue appartenenti al periodo più drammatico del XX secolo. Ma dei due abbiamo un enorme quantità di informazioni solo riguardo a Orson Welles mentre molto poche a riguardo di Herman Mankiewicz. L’intento del film in tutta evidenza è quella di dare consistenza e verosomiglianza a questo  sconosciuto sceneggiatore. E qui viene fuori la nostra lettura del pessimo servizio reso al povero Mank. Per rinforzare il lavoro fatto 50 anni prima da Pauline Kael, Fincher ha pensato bene di costruire il personaggio Orson Welles in una forma che ha del grottesco nella sua efficacia spettacolare e che ha lo scopo di ridimensionare il ruolo storico fondamentale avuto da Welles all’interno della storia del cinema occidentale. Ci siamo imposti di non fare confronti con il capolavoro wellesiano. Ci corre l’obbligo però di  fissare due punti.

I due nodi da sciogliere, ottanta anni dopo  

Si potrebbe dire che la sceneggiatura di Mank sembra anticipare quanto sostenuto da Kenneth Anger (il re del cinema underground Americano) nel suo Hollywood Babylon[38], mentre quella di Welles, al confronto sembra il biopic di un grand’uomo dell’America rooseveltiana, tormentato da un’ambizione sconfinata, egoista, anaffettivo e afflitto da una sindrome abbandonica, tutt’al più con il vizio di voler tenere sotto controllo l’opinione pubblica e magari poterla indirizzare (delirio di onnipotenza). In altri termini la sceneggiatura  originale di Mank è quella più vicina alla verità storica del cittadino americano William Randolph Hearst mentre quella di Orson Welles è, in tutta evidenza, una manipolazione, ironica e arguta, del lavoro del povero Mank, dove il cittadino Kane diventa una figura storico-simbolica, solo vagamente determinata e comunque irriconoscibile. Anzi, anche per rendere meglio il concetto, Charles Foster Kane mostra molti aspetti della personalità dello stesso Orson Welles che non hanno nulla in commune con W.R. Hearst. Infine in più il cittadino Kane è una persona generosa, stimata ma morigerata e non si sogna neppure di vivere con moglie più amante. In altre parole la manipolazione del giovane Orson si può anche definire come purificazione e cancellazione del marcio e dello sporco. Poichè viene subito in mente il codice Hays, affermo che nel film Citizen Kane, così com’è ancora oggi, possiamo apprezzare e godere della capacità del linguaggio cinematografico di rappresentare ed esporre concetti astratti, concetti di grande complessità che si elevano visivamente molto al di sopra della cronaca, storica, reale e spicciola, depurandola di quel groviglio di piccanti Gossipche lasciano il tempo che trovano. In breve il cinema di Orson Welles è sempre stato un cinema concettuale, dove aleggia sin dall’inizio, semmai l’idea, la concezione del linguaggio cinematografico di Ejzenstejn: quella ache gira intorno alla parola russa Obraz (= immagine) trasformata però in immagine-concetto, immagine-idea, immagine visione del mondo[39]

 L’altra questione riguarda la parola Rosebud che costituisce il filo conduttore del film Citizen Kane, dall’inizio alla fine, e che peraltro non è presente ed esplicitato in Mank, ma che è presente in tutti i commenti dei critici e nelle interviste del regista. Ne è venuta fuori una discussione pubblica, ripetitiva e noiosa. Il termine che va tradotto in italiano con bocciolo di rosa e non con Rosabella, è sicuramente fonte Herman Mankiewicz perchè solo lui poteva conoscere questo vezzo intimo della coppia Hearst-Marion Davis. Ora nel momento in cui un uomo potente decide di chiamare la propria amante con un nomignolo che si riferisce al clitoride è evidente la svalutazione della stessa in quanto persona (e generalizzando la svalutazione include tutto il genere femminile). E, per quanto prezioso e profumato, a che cosa serve un un bocciolo di rosa? Va messo all’occhiello o nel taschino della propria giacca smoking nelle grandi occasioni mundane! E quindi ci può stare una velenosa vendetta di Mank nei confronti anche di Marion Davies (che lo abbandona quando potrebbe aiutare indirettamente Upton Sinclair).Una controprova la si ha quando Charlie Lederer arriva nel ranch per accusare Mank su questo preciso punto: E’ tua amica ed è mia zia!!”, cioè  al nipote della tenera Marion non gliene frega niente di Hearst e della sua immagine. Una ulteriore conferma è proprio la visita del fratello Joe, che completamente indifferente all’onore e il prestigio della povera Marion, gli dice che sta diventando un buffone di corte e qui è l’interesse egoistico del fratello minore buono ben sistemato all’interno della MGM.

Welles cambia tutto, Rosebud, attraverso una sublimazione psicoanalitica (da supermarket, come detto chiaramente dallo stesso Welles in un’intervista) diventa uno slittino infantile connesso a una sfera di vetro con interno paesaggio nevoso, la casa in montagna con annessa miniera d’argento e non d’oro (ome ha precisato Kenneth Anger). E’ il ricordo ossessivo della sua infanzia, degli affetti familiari, interrotti dalla favolosa miniera. L’abbandono materno, la crescita nella totale anaffettività dei College di lusso e il cinismo del banchiere-tutore determinano una vita dorata ma segnata dalla solitudine.  E c’è anche una de-sessualizzazione wellesiana che, dobbiamo dirlo, sa molto di Hays Office e che ha contaggiato anche lo stesso Fincher. Questi ci presenta un Mank, un uomo di 43 anni, invecchiato anzi tempo, con vizi patetici e autodistruttivi, che si ritrova a dover vivere mesi, note e giorno, in un ranch con due giovani donne (la dattilografa abbastanza somigliante alla moglie), completamente devirilizzato. Ma poichè qui si apre un complesso problema, quello cosiddetto dell’autorialità dell’opera cinematografica, che ha agitato la critica cinematografica francese del secondo dopoguerra, a partire da André Bazin e i suoi “allievi” protagonisti della Nouvelle Vague, F. Truffaut, Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Louis Malle, ecc., tutti ispirati dal capolavoro di Orson Welles. Mi sia consentito di chiuderlo in fretta come un falso problema. Anche perchè esso è ben connesso e intrecciato con una straordinaria questione millenaria, tuttora irrisolta e problematica, quella del Laocoonte: vexata quaestio che va affrontata in altra sede. 

Là dove osano le aquile[40]

A questo punto dobbiamo esporre uno sguardo esplorativo di sintesi  cercando di interpretare le intenzioni profonde (non un processo alle) del regista David Fincher nel realizzare questo film, al di là delle spiegazioni date da lui stesso: cioè portare a termine il progetto del padre per proporre riconoscimenti non ancora  acquiaiti alla memoria di H. Mankievicz. Così, guardando dall’alto con sintetica inquadratura, la filmografia “fincheriana”, si può dire che due siano le caratteristiche che denunciano la sua firma: cupezza e misoginia 

La prima si manifesta nella fotografia e nei vari effetti visivi 

la seconda è evidente nella messa in scena o meglio nel trattamento e/o nell’attuazione delle sceneggiature non sue. 

Qui va tenuto presente che per Fincher si tratta della prima esperienza in B/N e insieme la prima esperienza di regia per una diffusione esclusiva sulla piattaforma web attualmente dominante. Quindi egli ha utilizzato tutti i supporti tecnologici più avanzati. In Mank il suo stile personale si è perfettamente adattato ai nuovi ritrovati digitali di Netflix. Certamente la cupezza si è manifestata in tutta la sua profondità tant’è che in alcuni momenti il buio ha assunto valenza espressiva anche quando temperato dal gioco di luci abbaglianti e luccicanti. Vediamo Mank che con un gesto improvviso rompe qualcosa, forse un bicchiere o forse un filo elettrico; inpone il buio a tutta la sala per poi esternare con  la sua voce stentorea minacciosa e persecutoria  una filippica contro i mercanti. 

Siamo nel primo frammento dell’ultimo flashback il nono… 

E la misoginia? 

Molto stemperata ma c’è. Mank, non bello, invechiato anzitempo e spesso sgradevole, è beato tra quattro regine ma non come Clark Gable[41], si tratta di donne sottomesse agli uomini e allo stesso Mank, il quale viene presentato  completamente devirilizzato e immune a qualsiasi tentazione, unica eccezione la sua profonda propensione alla personale auto distruzione. Viene da pensare che  questo mantenere le distanza forse può essere letto come una metafora dell’attuale pandemia. C’è comunque da chiedersi, vista la complessiva filmografia del regista, se il nostro qualche serio problema con il genere femminile ce l’abbia veramente…

Questa vision panoramica di campo lungo con vista dall’alto ci permette di definire questo film come un’opera significativa e rappresentativa del tempo che stiamo vivendo. La scansione filmica è ansiogena, con continui colpi di scena, i flashback (strumento cinematografico presente sin dalle origini) che per definizione dovrebbero rendere più chiara la storia centrale del film sono talmente tanti e montati con poca coerenza, finendo per essere la parte più attrattiva del film. 

Mank è un film che ci porta indietro di 80 anni in una atmosfera di confusione, di incomprensione e distanziamento sociale, i buoni sentimenti sono assenti, l’amicizia è una parolaccia, l’amore non abita più qui. La II Guerra mondiale che infuria non è presente ma si fa sentire senza rumore. Infine niente sesso godereccio, machista e bisessuale, come dire che la  Hollywwod Babilonia non esiste, è una fantasia maligna del grande cineasta d’avanguardia e omosessuale Kenneth Anger.

Rimanendo là dove osano le aquile c’è ancora un’associazione d’idee e immagini che spunta ogni tanto anche con insistenza. Si tratta di un film recente, uno dei tanti che nel corso del tempo è stato costruito e realizzato sulla vita e le storie vissute all’interno degli studios di Hollywood. Mi riferisco a Ave Cesare! (Hail Caesar!) dei fratelli Cohen che è di pochi anni fa (2016). Mi chiedo se Fincher non ne abbia magari tenuto conto. E’ un film ambientato nell’anno 1951, infarcito di comicità hiddisch e con uno strepitoso George Clooney (anche meglio di quello di Fratello dove sei?, sempre dei Cohen 2000), pieno di riferimenti storici criptati veramente godibili. 

Ma quello che appare  adesso improvvisamente in mente è la presenza di due giornaliste tremende e pettegole che sono interpretate dalla stessa attrice (Tilda Swinton) e che hanno nomi fittizzi. Il riferimento evidente è a Hedda Hopper e a Louella Parsons. 

Quest’ultima la devota e accanita  giornalista al cieco servizio di William Randolph Hearst, nel 1951, era ancora viva e attiva, ma il meglio di sè per Hearst lo ha dato nei 15 anni che passano dall’ Età del Jazz e, attraversando il periodo della grande crisi (1929), fino  tutti gli anni ’40. 

Dunque la domanda è: perchè in Mank è assente e non viene neppure mai nominata? Eppure in fatto di “misoginismo” Louella Parsons offre spunti di ogni tipo. Quindi come mai?  Possiamo anche ipotizzare che Herman Mankiewicz nella sua sceneggiatura ce l’abbia messa eccome, magari con il ruolo che ha realmente svolto all’interno delle feste a Saint Simeon, dunque è un fantasma, il fantasma della misoginia… 

Sottili influenze wellesiane

Dato il fluire continuo di commenti di critici over 40 e di interviste che il regista continua ad accettare (l’ultima ottenuta da Ben Affleck, protagonista di L’Amore sbagliato- Gone Girl), ci pare di poter affermare che nessuno ha pensato come e quanto sia possibile trovare in Mank influenze wellesiane. Intanto di per sé l’aver scelto il B/N e la tendenza all’uso delle inquadrature dal basso in alto non è certo un omaggio a chi ha scritto la sceneggiatura, ma ci sono due momenti che è difficile non definirli wellesiani o quanto meno un riferimento ironico a quanto nessuno ne ha mai contestato l’attribuzione (neanche la Kael). I due momenti sono: l’intero flashback n. 2 (protagonist Louis B. Mayer) 5’ di durata e il finale del Flashback numero 9 (spezzettato in tre parti, questo 2’) in cui W.R. Hearst  accompagna Mank dopo il vomito all’ingresso della villa e gli racconta una storiella…Il primo vede protagonista assoluto Louis B. Mayer (è la sua carta d’identità) Mank gli presenta suo fratello. Il terzetto con Mayer al centro e alla guida si muove attraverso gli Studios seguono due piani sequenza con MdP dal basso in alto (inquadratura a figura intera)  in movimento e retromarcia. Non c’è dubbio che Orson Welles avrebbe apprezzato e applaudito. Ma tutto il flashback è perfetto nella sua chiarezza e anche nei suoi riferimenti storici che qui sono puntuali e verosimili. Abbiamo un Mank completamente sobrio e silente. Anche l’assemblea di tutti i dipendenti MGM in collettiva ansia per le proposte sincere del Tycoon, il cui discorso sulla riduzione della paga è apprezzato (rara avis) dallo stesso Mank in chiusura. Questo flashback brilla di luce e di effetti visivi strettamente cine-dinamici, e siamo nel 1934, Roosevelt insediato a Washington, parte il New Deal e Hollywood fa il suo dovere con il diabolico L.B. Mayer.

Il secondo precede e crea un contrasto significativo con il gran finale Mank-Orson, finale che abbiamo già esaminato. Ma qui dobbiamo notare che questo finale, con la ferma intenzione di Mank nel voler firmare la sceneggiatura, è anche la orgogliosa risposta di Mank a quanto accaduto in coda quell’ultimo flashback, durata complessiva 10’ datato 1937. Si tratta di due minuti profondamente cupi, con Mank ubriaco fradicio che viene accompagnato da Hearst all’uscita. Durante il percorso Hearst gli racconta la storiella della scimmietta e dell’ambulante suonatore d’organetto. La scimmietta legata con la catena al suonatore deve ballare anche se non vuole… Una storia allusiva molto chiara anche se è un po’ faticoso pensare Hearst come un suonatore ambulante! Come si fa a non evocare uno dei più straordinari film di Orson Welles, Mr. Arkadin (Confidential Report, 1955), con una strepitosa squadra di attori famosi (non dello Star System) e “apolidi”, come lo stesso Welles, qui protagonista sardonico insieme alla moglie italiana e pure nobile, Paola Mori (che gli ha dato l’ultima figlia Beatrice). E’ un film che non ci si stanca mai di ri-vedere ed è un film in cui, a un certo punto, Arkadin racconta con ironia che spinge al sarcasmo la favola, attribuita ad Esopo, della rana e dello scorpione. Charles Dance (attore di medio livello con un  curriculum di tutto rispetto) nei panni di W.R. Hearst, diciamo che se la cava. Mettiamola in questo modo: Hearst, quello vero solo Orson Welles avrebbe potuto renderlo capace di proiettarsi fuori dallo schermo!

Prima di arrivare alle conclusioni, occorre esporre qualche congettura su un altro fantasma che, insieme a Louella Parsons, si aggira all’interno di questo film. A quanto già detto su Louella Parsons aggiungiamo che  possiamo pensare a una sicura presenza di costei nella sceneggiatura che poi si è deciso di togliere per rendere tutto, ironia della sorte, più semplice oppure pensare di evitare un elemento troppo a favore di Welles… L’altro fantasma è niente meno che Charlie Chaplin! Nella convinzione sull’assenza ingiustificata di Upton Sinclar  siamo andati ad esaminare su IMDB il Full Cast, perché non riuscivo a credere che il tizio in maglietta che per pochi secondi si vede  intento ad invitare la  sparuta folla a votare il candidato democratico, sopra una cassapanca in strada, fosse Upton Sinclair!. Dopo averlo trovato scorrendo ancora la lunghissima lista abbiamo trovato appunto, in fondo, l’attore che ha interpretato Chaplin! Chi l’ha visto? Non è possibile! E dove diavolo è? 

Charlot come maschera immortale, ma anche Chaplin in quanto persona fisica, sono talmente visibili e riconoscibili, ancora oggi nell’immaginario collettivo, che è incredibile pensare di ingaggiare un attore senza renderlo vero-somigliante e farlo apparire bene per almeno due secondi! Il fatto è che i due fantasmi  (tre se includiamo il tizio sulla cassapanca, presunto Upton Sinclair) evocano uno degli episodi più oscuri e funerei della vita di Hearst. Ma il vero problema è che in questo episodio (un cadavere nel suo armadio) è coinvolta come protagonista proprio Marion Davies e non solo lei… Non ci resta che riportare quanto si può trovare sul testo già più volte mensionato di Kenneth Anger. 

Alla fine bagliori nella nebbia e strani fantasmi 

Siamo fuori dal film di David Fincher ma andiamo alle origini di quella sceneggiatura che è al centro del film di cui stiamo parlando. Mank con il primo flashback ci rimanda al 1930. Dobbiamo invece andare più indietro al 1924, novembre.

PRODUTTORE CINEMATOGRAFICO UCCISO DA UNA RIVOLTELLATA SULLO YACHT DI HEARST. L'articolo - era sul .. Times .. di Los Angeles - nelle edizioni seguenti venne soppresso. Stava succedendo qualcosa: era in atto una gigantesca operazione di copertura. Dietro, c'era William Randolph Hearst, il lugubre Re della Stampa, un personaggio così temuto che persino i fogli scandalistici rivali non osavano offenderlo apertamente. Sebbene la sua relazione con Manon Davies tosse un segreto di Pulcinella, i loro nomi non erano mai uniti ufficialmente sui giornali. l quattrocento milioni di dollari di Hearst, una fortuna fondata sulle miniere d'argento, avevano il toro peso. [42]

Dunque i due protagonisti del film sono già al centro dell’attenzione! E ci sono anche le miniere al plurale, ma d’argento e non c’è nessuna condizione di spensieratezza di un uomo invece onnipotente e convinto di essere al di sopra della legge, ma rancoroso, geloso e “paranoico”. Ma siamo solo all’inizio.

La crème de la crème hollywoodiana ricevette u n invito da Hearst per una crociera sull'Oneida che sarebbe partita il 15 novembre. Era in programma una gita a San Diego, per festeggiare il quarantatreesimo compleanno di Tom H. lnce, un regista-produttore della vecchia guardia, .. padre del Western ...[43]

Povero Thomas H. Ince  innocente e sfortunato per la nebbia che avvolgeva il gigantesco Yacht Oneida (apparteneva al Kaiser tedesco, Hearst l’aveva comprato dopo la guerra). Era sulla cresta dell’onda e su quello Yacht che sarà il suo carro funebre[44]. si stava organizzando la festa di compleanno per i suoi 43 anni!

Altri due ospiti andarono a prendere Marion Davies sul set di Zander The Great, alla United Artists. Charlie Chaplin e una columnist cinematografica newyorkese di Hearst, Louella O. Parsons. alla sua prima visita a Hollywood. l tre raggiunsero San Pedro in automobile. L'Oneida prese il mare con un carico di celebrità, un'orchestrina jazz, una scorta di champagne d'annata e la ventisettenne Marion col suo protettore sessantaduenne in veste di padroni di casa. Capitan Hearst scelse una rotta meridionale, passando da Catalina e puntando verso San Diego e Baja.[45]

Ecco che appare il terzetto magico e diabolico: Marion Davies, Charlie Chaplin e Louella Parsons! Tutti e tre legati, in quel momento a W. R. Hearst per un assurdo delitto frutto della nebbia che avvolge quella enorme mostruosità Kitsch che si chiama Oneida ma che avvolge soprattutto la mente malata del suo proprietario. E arriviamo al fattaccio

Hearst teneva a bordo un revolver tempestato di brillanti, che gli serviva per un divertimento per lo meno singolare, considerato che era famoso come anti-vivisezionista. Come racconta John Tebbel, Hearst ora un ottimo tiratore: ... Lo divertiva sbalordire gli ospiti dell'Oneida abbattendo un gabbiano con un colpo sparato senza mirare, alla maniera dei cowboy ". Hearst era anche incredibilmente geloso delle attenzioni che gli altri uomini rivolgevano a Marion e i suoi investigatori privati lo avevano tenuto al corrente degli affettuosi incontri di Marion con Chaplin durante la sua assenza. Il comico era stato invitato perché Hearst voleva vedere come si comportava con Marion. Forse Chaplin si domandò se era il caso di andare. ma poi decise di affrontare la situazione. Lasciò a casa la fidanzatina incinta, Lita, e partì. Si pensa che, durante la festa di compleanno, Hearst si sia accorto che Marion e Charlie erano sgusciati via assieme e, più tardi, li abbia colti in flagrante delicto sul ponte di passeggiata. Con la sua famosa balbuzie, Marion lanciò un grido profetico: ... All'as-as-as-assassino! .. che fece arrivare di corsa tutti gli ospiti, mentre Hearst si precipitava a prendere il revolver. Nel parapiglia che seguì, non fu Chaplin, ma lnce a cader morto con una pallottola nel cervello.[46]

Intanto qui apprendiamo che Marion Davies era famosa per la sua balbuzie, difetto che non costituiva problema nel periodo del muto, mentre con l’avvento del sonoro certamente, soprattutto per una donna,  era un handicap piuttosto grave. E qui si impone un nuovo obbligo di riferimento che già nel corso della nostra analisi era più volte apparso nella nostra memoria: un altro film, grande capolavoro, da rivedere, Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the Rain 1952) di Stanley Donen e Gene Kelly. In questo film molto allegro ma anche molto crudele si può verificare la triste fine che hanno fatto, con la nascita del sonoro, tutte le “oche giulive”. 

Il passo appena citato spiega bene tutto e  soprattutto evidenzia aspetti della personalità del grande Chaplin veramente inquietanti[47]. Ancora una volta si ha la verifica del fatto che il cittadino Kane non ha niente a che vedere con il vero Hearst. Inoltre escludendo che il povero Mank abbia potuto avere il coraggio di evocare questo grottesco dramma, certamente nella sua sceneggiatura riferimenti indiretti ci potrebbero essere. 

Non è, a questo punto, chi non veda l’evidenza: il film di Orson Welles è completamente fuori dal tempo, così come il protaginusta Charles Foster Kane,ed è immortale, Mank, anche se straordinario, non può esserlo. 

Ma attenzione manca un ultimo piccolo tassello che completa il puzzle.

A qualcuno non sembrò una coincidenza che Louella avesse ottenuto un contrailo a vita con le pubblicazioni Hearst e il suo giro di collaborazioni nazionali si fosse allargato di molto dopo l'incidente. Si sussurrava che la giornalista avesse visto tutto. Qualche tempo dopo, Louella senti il bisogno di coprire anche le proprie tracce, e dichiarò che al momento del fatto si trovava a New York. Il guaio era che la controfigura di Marion, Vera Burnett, ricordava chiaramente di averla vista allo studio, con la Davies e Chaplin, pronti per partire (Vera ci teneva al posto e decise di non insistere nella sua versione). La diarchia Hearst-Davies uscì indenne dallo scandalo. Ma come osservò  D.W. Griffith anni dopo: “se si vuol far diventare bianco come un panno lavato Hearst basta nominargli Ince. … Tutti nella colonia cinematografica sapevano che bastava far il nome di Tom Ince alla portata d’orecchio di Hearst per non essere mai più invitati nella casa di Santa Monica o nel Castello di San Simeon[48]

Dunque qui si chiude il cerchio. Louella Parsons, appena arrivata a Hollywood, in fase di ansiosa ambizione professionale, testimone dell’omicidio, si ritrova con in tasca un contratto a vita che la fa salire, in un attimo, al settimo cielo. Non solo e proprio lei che, sbirciando e ascoltando nella nebbia, ha anche capito che i due, Marion Davies e Charlie Chaplin, erano pronti per una fuga d’amore!

Ma allora, dove andiamo?

A questo punto potremmo dire che Carneade rifondando l’Accademia platonica, in tempi di grande declino della civiltà greca, abbia lasciato profondi segni molto più di quanto non abbia potuto fare Herman J. Mankiewicz, rivisitato nei nostri attuali tempi di sicuro declino.  Ma oggi viviamo in un mondo gòobalizzato dove dominano sempre di più le immagini visive in movimento che con la digitalizzazione sono in continua trasformazione. E il cinema, quel caro magico strumento che i  fratelli Lumiére sono riusciti a trasformare in quella che è stata poi definita la settima arte, oggi che cosa è diventata? Qualche decennio fa quell “pazzo” di Jean-Luc Godard rispondeva: “Il cinema è il cinema!”. Cioè, la sua iperrealtà, profondità e indissolubilità.

Dobbiamo esprimere tutta la solidarietà a Beatrice Welles per dover probabilmente assistere a qualche premio Oscar dato a un film che ancora una volta tenta di svalutare  e disconoscere la grandezza di un artista americano che è stato più volte percepito come “rinnegato”. Al tempo stesso però negare l’evidenza è impossibile. In breve riteniamo che 20 anni e più dopo il primo Matrix[49]Mank si annuncia come un nuova metamorfosi del cinema, del linguaggio cinematografico, come l’attuale ultima dimostrazione di quella natura proteiforme della settima arte che a suo tempo ho cercato di dimostrare[50]

Il Massimo merito di questo Mank è emerso più volte in questo testo: quello di richiamare la storia e la forza del cinema americano da David W. Griffith in poi. Qui possiamo aggiungere che questo film incarica, impone allo spettatore il compito di diventare analista, proprio perchè è visibile solo su Netflix, cioè in una piattaforma dove è possibile vedere ogni film come “alla moviola” ma in più, attenzione, ci da un faticoso affresco storico attraverso 10 anni di Hollywood intrecciati con la storia Usa 1930-40, rappresentando concretamente i magnati che hanno creato le condizioni per lo sviluppo del cinema mondiale del secondo Dopoguerra. E a ben vedere chi ne esce meglio è proprio Orson Welles. Il suo film che Fincher invita continuamente di visionare sempre su Netflix, spicca per la sua splendida fotodinamica e fa parlare la MdP (macchina da presa) più che il testo da cui è tratto. Si potrebbe dire che forse alla fine David Fincher stimola gli spettatori del terzo millennio a riscoprire tutto quel cinema del secondo Dopoguerra che si sviluppa sui sentieri tracciati da quel dannato “ragazzo dal muso di cane”. 

Infine, Gary Oldman

Se facciamo un impossibile sguardo sintetico complessivo sulla settima arte è facile constatare che il cinema americano, con l’arrivo del sonoro, insieme anche alla sua letteratura, è pieno di personaggi protagonisti e non, segnati dall’alcol, specialmente dal wisky. Elemento caratteristico che non troviamo in nessun’altra cinematografia, certo sappiamo che il proibizionismo ha condizionato fortemente il cinema USA dall’età del Jazz in poi. Quanto detto è per dire che a Hollywood la bravura di un attore  quando interpreta un personaggio segnato dall’alcol dovrebbe essere l’ABC.  due parole su Gary Oldman. E’ sicuramente bravo, ma non certo per l’alcolismo[51] e neanche per il momento quando, ubriaco, vomita (sul cui piatto ha mangiato…). E’ convincente nel riuscire a mostrarsi e a comportarsi come un ultra sessantene dichiarando di avere 43 anni e di dire spesso che si sente già morto… Ma questo secondo me è anche merito del regista, per come ha sfruttato le doti di Gary Oldman. sempre però con il suo demerito, vorrei dire tignoso, di disorientare, confondere lo spettatore. Si, ci rendiamo conto che è quanto talvolta si è detto dell’Orson Welles regista, con il suo stile “barocco”.

Ma in verità è forse più appropriato rendersi conto che nell’opera cinematografica di Welles, fino al suo ultimo film The other Side of the Wind[52], aleggiano personaggi e storie che hanno funzione di metafora o allegoria del tempo presente ma che per la loro simbolica astrattezza si collocano in una dimensione extra-temporale. E i suoi personaggi si sviluppano all’interno di una atmosfera di profonda ambiguità esistenziale, come quella che Simone De Beauvoir ha definito e analizzato nella sua poco nota opera Per una Morale dell’Ambiguità[53].

 

NOTE 

[1] Di Jorges Louis Borges, articolo pubblicato come recensione di Citizen Kane (1945), è riportato  in Il cinema secondo Orson Welles, testo collettaneo curato da Paolo Mereghetti, editato nel 1977 dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici (il famoso libro longilineo!).  La pubblicazione è uscita in concomitanza della  prima rassegna completa dell’intera filmografia wellesiana organizzata dallo steso Mereghetti presso il Cineclub Obraz Cinestudio di Milano.

[2] I Promessi sposi, cap. VIII. Don Abbondio sta leggendo un panegirico di San Carlo Borromeo e incontra questo nome…

[3] Da questo punto in poi citeremo sempre solo il titolo originale, perché il titolo italiano è il frutto avvelenato di un massacro: 12’ minuti cancellati in punti nevralgici, Xanadu trasformato in Kandalu (?), Rosebud (= bocciolo di rosa) in Rosabella (sic!).

[4] Qui va subito tenuto presente che Herman J. Mankiewicz risulta come uno dei fondatori di questo Magazine, nato nel 1925, tuttora attivo e autorevole

[5] Devo qui rinviare al mio testo del 1985 L’impossibile eredità del cittadino Kane, pubblicato su Zuppa D’anatra, rivista dell’OBRAZ Cinestudio, scritto di getto all’annuncio della morte di Orson Welles. In questo scritto, che si può leggere su questo stesso sito (Forma on line – Università – Orson Welles), rispondo alla tesi della P. Kael che aveva, in buona sostanza, affermato che il giovane Welles non avrebbe potuto mai realizzare il suo capolavoro, senza il contributo fondamentale di H.J. Mankiewicz e di Greg Toland (fotografia). Il problema è che Welles è stato geniale e forse irripetibile proprio nell’aver spazzato via tutti gli elementi contingenti e trucchetti tecnici vari realizzando un’opera di arte cinematografica in grado di far percepire allo spettatore problemi e concetti astratti tipici della condizione umana nel XX secolo e oltre., come il tema heideggeriano della morte e non solo. 

[6] Docufilm di Oja Kodar del 1995 dedicato a Orson Welles nel decennale della sua morte.

[7] 1939 d. 240’ di Victor Fleming prodotto da David O. Selznick, con Clark Gable, Vivien Leigh, Olivia De Havilland

[8] Basterebbe forse citare il libro di James Naremore Orson Welles ovvero la magia del cinema (ed. it. Marsilio Padova 1993) ma ricordiamo che negli ultimo 10 anni sono usciti, in mumero incredibile, docufilm dedicati a Orson Welles con espliciti riferimenti alle sue abilità magiche esposte in tutti i suoi film.

[9] Come esempio di situazione simile citerei Mancia competente (Trouble in Paradise, 1932) di Ernst Lubitsch con Herbert Marshall e Kay Francis, Considerato capolavoro della sophisticated Comedy, si fa fatica a seguire la trama, sia per lo stile ben noto del regista, ma soprattutto per il B/N che spesso disorienta e distorce la percezione dei personaggi primari e secondari.

[10] Dobbiamo aggiungere un’osservazione banale ma importante. La dimensione streaming, in quanto tale, aumenta la distorsione percettiva dello spettatore. L’epoca d’oro della pellicola era quella degli schermi enormi in cui anche gli occhi più distratti potevano notare i più piccoli particolari, anche i famosi errori, storici e no, che creavano continui dibattiti tra appassionati. Oggi che si può vedere un film Netflix o di qualsiasi altra piattaforma, anche sul cellulare, è chiaro che il dettaglio, i dettagli sfuggono anche al critico più esperto

[11] E’ inevitabile citare e tenere presente il celebre libro di Kenneth Anger Hollywood Babylon, pubblicato prima in Francia, a Parigi (1959) e poi più tardi in versione inglese (1975). Useremo la splendida edizione italiana Adelphi 1979 con la traduzione (libera ma rigorosa) di Ida Omboni.

[12] Qualcosa di vagamente simile era una caratteristica distintiva di tutti i registi della Nouvelle Vague, in particolare direi Godard, Truffaut e Eric Rohmer.

[13] Stiamo esaminando l’ottima versione italiana, quindi non possiamo essere sicuri che questa espressione, colorita e gustosa, corrisponda letteralmente all’originale in lingua inglese-americana. Che dire? Per carità ci può stare: cane da guardia che prima o poi ringhia e abbaia.  E’ un aspetto verosimile della personalità di Welles, anche per le numerose e varie testimonianze italiane (compresa quella di PP. Pasolini). Comunque sia denota un intento svalutativo abbastanza infantile  e patetico.

[14] Potremmo citare a dimostrazione Seven fino al più recente L’amore bugiardo – Gone Girl passando attraverso The Game – nessuna regola e Fight Club e Il problema è l’uso scorretto di ciò che viene definito come ellissi temporale. Un'ellissi temporale è un salto temporale nella narrazione di un'opera, consistente nel non riportare gli avvenimenti avvenuti durante il periodo saltato, considerandoli ovvi e impliciti. E’ stato notato che è una tendenza sempre più scorretta e abusiva nella filmografia mondiale più recente. Diciamo che Fincher esagera!

[15]Pochi minuti di presenza nel film di colui che ha lanciato il Technicolor. Il primo film con la tecnica tricromatica è stato Il Giardino di Allah (1936)poi, dopo il Colossal Via Col Vento, ha prodotto quello straordinario capolavoro che è stato Duello al sole (1946)

[16] Il film è stato realizzato l’anno successivo. E’ possibile che già circolasse non ufficialmente la prima bozza di sceneggiatura della Universal e quindi della diretta concorrente.

[17] Curiosamente questo film che è più fedele al romanzo di Mary Shelley è stato poi realizzato 60 anni dopo da Kenneth Branagh con Robert De Niro nel 1964

[18] Dalla convergenza delle varie forze nacque la Metro Goldwyn Mayer; in realtà Goldwyn. non rientrava nella fusione, ma impose di mantenere il proprio nome nella nuova formazione. Il produttore, deluso da questi difficili rapporti societari, decise di mettersi in proprio, fondando nel 1924 la Samuel Goldwyn Inc., una casa di produzione che utilizzò come distributrice la United Artists (del cui consiglio di amministrazione G. faceva parte) e in seguito si servì della RKO. Senza risparmiare sui costi e avvalendosi delle migliori forze creative, G. diede avvio alla produzione di un cinema di qualità, sfruttando la propria abilità nel mettere insieme persone di talento e dar loro la spinta creativa. (ENC. TRECCANI)

[19] François Truffaut told me he was convinced that Welles made F for Fake for only one reason: to refute Pauline Kael’s charges that he tried to steal credit for the Citizen Kane script from Herman Mankiewicz": in Joseph McBride, What Ever Happened to Orson Welles? A Portrait of anIndependent Career, The University Press of Kentucky, Lexington, 2006, p. 247.

"François Truffaut mi ha detto di essere convinto che Welles abbia fatto F for Fake (in italiano, Verità e Menzogne) per un solo motivo: per confutare le accuse di Pauline Kael di aver cercato di rubare il credito per la sceneggiatura di Citizen Kane a Herman Mankiewicz" Segnalazione di Massimiliano Studer

[20] Marie Seton S. M. Eisenstein Milano Ed. Fratelli Bocca 1954 556 pgg., traduzione di Paolo Jacchia e John Francis Lane

[21] poi realizzato da Joseph Von Sternberg e remake del 1951 in B/N sempre Paramount diretto da George Stevens e con Monty Clift

[22] Op. cit. p. 194

[23] Ivi.

[24] Marie Seton nella citata biografia dedica all’avventura americana di S.M. Ejzenstejn ben tre capitoli di cui due sulla permanenza in Messico (217-298), durata un intero anno con il controllo continuo del cognato di Sinclair

[25] op.cit. p. 255

[26] pagg. 290-92

[27] Sinclair ha anche ricordato che Ejzenstejn in Ottobre aveva inserito tra i protagonisti giustamente Lev Trotskj e che aveva, senza colpo ferire, dovuto accettare il taglio di tutto le scene (tante) in cui appariva il grande nemico di Stalin

[28] American Outpost ed. Girard, Kansas, Haldeman-Julius Pubblications, 1932, ed. riveduta 1947

[29] Eisenstein cit. pagg. 297-8

[30] ivi pag. 256 neretto nostro

[31] Per una verifica è sufficiente ricordare un episodio significativo e ben noto i cui protagonisti sono stati John Huston e Jean-Paul Sartre. Progetto per un Biopic  di Sigmund Freud : Sartre  viene personalmente incaricato da Huston e scrive in pochi mesi una scneggiatura di 400 pagine, Huston rimane di stucco: “Impossibile! Verrebbe fuori un film di 8 ore!” Sartre riceve il compenso di 25.000 $. Huston ingaggia due psicoanalisti americani che cercano di tenere conto dell’opera di Sartre (Torino Einaudi 1985 a cura di J-B. Pontalis) e, fermandosi al !895 (anno in cui Freud stesso dichiara di aver messo a punto il”metodo”). Il film, notevole soprattutto per la interpretazione di Monty Clift, ha avuto una storia dannata comunque. Uscito con 160’ di durata, poi vien ridotto a 140’. Infine arriva in Italia con120’!

[32] Su il manifesto del 9 gennaio 2021

[33] E’ evidente che Kane non ha che qualche vaga e molto pulita somiglianza a Hearst, mentre traspare con forza la vero-somiglianza con la storia personale del regista (e proprio nella mitica sequenza della vendita del piccolo Kane inquadrato in profondità di campo con lo slittino).

[34] Galvano Della Volpe Il verosimile filmico e altri saggi Roma Samonà e Savelli 1971

[35] E qui d’obbligo ricordare Matrix, iniziatore della metamorfosi digitale del linguaggio cinematografico del Terzo Millennio

[36] Il Kolossal del 1916 realizzato da Griffith per rispondere alle accuse di razzismo (evidente in Nascita di una nazione) è centrato sulla storia contemporanea di ambiente operaio e intrecciata, tramite un perfetto  montaggio parallelo, con tre storie classiche (Babilonia, Gesù, gli Ugonotti): il finale è diventato modello per buona parte dei film targati Hollywood, fino ad oggi.

[37] Cfr. Welles e Konrad di Paolo Mereghetti Questo testo risulta ancora più illuminante oggi di come lo fosse allora e proprio per diradare tutta questa nebbia “fincheriana”! Di Mereghetti ricordiamo anche  la monografia Orson Welles in prima edizione francese 2007 per i Cahiers du cinéma e poi 2008 Rizzoli.

[38] Citeremo da qui in avanti  l’edizione italiana  speciale (fuori catalogo) Adelphi Hollywood Babilonia, cit. Formato grande con testo su due colonne in ogni pagina.

[39] Forma e tecnica del film e lezioni di regia di Sergej M. Ejzenstejn, a cura di Paolo Gobetti, Einaudi 1964,  cap.   Parola e immagine  pagg. 226-66.  E’ importante ricordare che questa edizione traduce dall’inglese (ma tenendo conto anche dell’originale russo), la prima raccolta di scritti teorici del regista pubblicati a New York nel 1949 in due volumi Film Form e Film Sense, tuttora vendutissimi! Oggi, crollate le censure sovietiche, l’opera teorica del grande regista supera i 15 volumi.

[40] Where Eagles Dare UK 1968 di B. G. Hutton con Richard Burton e Clint Eastwood 

[41] Un re per quattro regine (1956) diretto da Raoul Walsh

[42] Op.cit. pag. 97

[43] Ivi seconda colonna

[44] Il capitolo dedicato in originale si intitola William Randolph’s Hearse (= Il carro funebre di William Randolph) in italiano il traduttore ha titolato La nave dei folli

[45] pag. 98

[46] pag. 99 prima e seconda colonna

[47] Roman Polanski al confronto risulta veramente quasi un galantuomo.

[48] Pag. 104 prima e seconda colonna

[49] 1999 di Lana e Lilly Wachowski

[50] Si tratta di un testo rielaborato dalla trascrizione delle registrazioni delle ciclo di conferenze che ho tenuto alla Casa della Cultura di Milano nell’ottobre-novembre 2005 con il titolo IL CINEMA TRA PSICOANALISI E FILOSOFIA.  Il testo sul presente sito (FORMA ON LINE – CRITICA DEL GUSTO) con il titolo Sulla natura proteiforme del linguaggio cinematografico è diviso in due parti: la prima sviluppa l’aspetto filosofico-critico, la seconda riguarda il tema del rapporto tra cinema e psicoanalisi.

[51]basta fare il confronto con il Ray Milland di Giorni perduti (1945)  di Billy Wilder e con Jack Lemmon di I giorni del vino e delle rose (1962) di Blake Edwards

[52] Su questo mitico film Massimiliano Studer , sta lavorando ad una complessa e ampia monografia, per una prossima.pubblicazione a stampa

[53] Milano Sugar editore 1947, trad. Andrea Bonomi

NETFLIX PRESENTS

MANK  di David Fincher

 

Sceneggiatura:  Jack Fincher

CAST

Gary Oldman                                               Herman J. Mankiewicz

Amanda Seyfried                                         Marion Davies

Arliss Howard                                              Louis B. Mayer

Tom Pelphrey                                              Joseph L. Mankiewicz

Sam Troughton                                            John Houseman

Ferdinand Kingsley                                     Irving Thalberg

Tuppence Middleton                                   Sara Mankiewicz

Tom Burke                                                   Orson Welles

Joseph Cross                                                Charles Lederer

Toby Leonard Moore                                  David O. Selznick

Monika Gossmann                                       Fräulein Frieda

Charles Dance                                              William R. Hearst

Jeff Harms                                                    Ben Hecht

Paul Fox                                                       Joseph Von Sternberg

Bill Nye                                                         Upton Sinclair

 

 

2020  DURATA FILM  132’

SEQUENZE DEI FLASHBACKS CIRCA 76’38”

SEQUENZE PRESENTE ANNO 1940 CIRCA 57’02”

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  1. INTRODUZIONE TITOLI DI TESTA ESTERNO - TRASPORTO E SISTEMAZIONE DI MANK IN RANCH FORT VERDE VICTORVILLE per convalescenza e scrittura sotto controllo della sceneggiatura. 6’

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  1. INTERNO CASA MANKIEVICZ – NOTTE – DUE SETTIMANE PRIMA (non è definito Flashback) 3’45”. Preambolo fondamentale. Prima parte: quadretto amoroso di Mank con la moglie Sara ubriaco fradicio in rientro in casa e Sara che lo spoglia, perché mi sopporti (r.: non lo so). Incompreso come sceneggiatore (antisemitismo?). poi gita in macchina con il cretino che causa l’incidente (fogli di sceneggiatura che volano) e infine prima apparizionedi O.Welles 9’42”(PP allucinazione?) che preannuncia confronto fra loro due. Fine 9’45”

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  1. ESTERNO STUDI PARAMOUNT – GIORNO 1930 (FLASBACK 1) 16’25”.10 anni prima: arrivo a Hollywood di Charlie Lederer che viene accolto dal fratello di Mank Joseph (futuro grande regista). Di fronte alla porta di una saletta riunioni cartello (genio al lavoro non disturbare) Dentro Mank gioca a testa/croce: moneta che rotola inquadrata in PP. RIUNIONE IN UFICIO CON DAVID O’ SELZNICK. Poi ESTERNO. SET FILM WESTERN. Protagonista Marion Davis che sta legata a un rogo e chiede aiuto e chiama Mank che gli offre una sigaretta (sic). Infine appare macchina elettrica con W.R. Hearst in persona. dialogo tra i due e invito a cena per Mank nella villa di Hearst!... Fine 26’10”.

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  1. PRESENTE 7’30”. CRISI ALCOLICA CAUSATA DA MANK PER BATTUTINE VELENOSE SUL MARITO (PILOTA RAF DISPERSO NEL MARE DEL NORD) DELLLA DATTILOGRAFA INGLESE che lo lascia solo per cui riesce ad agguantare una bottiglia di Wiskey e se la beve tutta in pochi secondi. Fine 33’40”
  1. ESTERNO STUDI MGMGIORNO – 1934 (FLASHBACK 2)4’58”

Sequenza dedicata per intero a Louis B. Mayer. Mank presenta il fratello a Mayer in quanto neo assunto come sceneggiatore alla MGM. Due piani sequenza con MP dal basso in alto in movimento in retromarcia e spettacolare assemblea dipendenti con Mayer che chiede a tutti di dimezzare il proprio stipendio in omaggio alla  Grande crisi iniziata nel ’29. Mank apprezza. 38’38”

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  1. PRESENTE 3’04”. In cura con massaggi nel Ranch. TELEFONA JOSEPH CHE GLI PROPONE UN LAVORO ALTERNATIVO PIÙ COMODO E BEN PAGATO SENZA problemi Mank rifiuta e tratta male IL FRATELLO. 41’42”

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  1. INTERNO SALA RIUNIONI SAN SIMEON (VILLA DI HEARST) – NOTTE 1933 (FLASHBACK 3 )13’15” Flashback fondamentale. Siamo, come dice il titolo, nel 1933. Hearst organizza una festa per il compleanno di Louis B. Mayer che ringrazia è con lui il giovane produttore Irving Thalberg rientrato di fresco da un viaggio in Europa con sosta prolungata nella Germania con Hitler al comando. Discussione nazismo socialismo comunismo. Mank socialista, lui contro tutti. Upton Sinclair scrittore socialista, candidato governatore da fermare. Marion e Mank fuggiti nello Zoo. U. Sinclair con i soldi estorti a Thalberg, produttore in Messico per un “film sulla rivoluzione messicana”.54’57”

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  1. PRESENTE 6’30”. SIPARIETTO RIDICOLO: UMILIAZIONE DI JOHN HOUSEMAN, TELEFONATA DI ORSON, MERITI MORALI E MATERIALI DI MANK SULL’IMMIGRAZIONE SALVATAGGIO DI UN VILLAGGIO EBRAICO-TEDESCO. 61’27”

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  1. ESTERNO STUDI MGM GIORNO 1934 (FLASHBACK 4) 6’33”. Elezioni California Merriam (repubblicano) contro Upton Sinclair socialista che Mank definisce voltagabbana quando incontra una vecchia comparsa disoccupata che sostiene lo sciopero degli sceneggiatori, Incontro scontro con Irving Thalberg (che non vuole più vedere nel suo studio i Flli Marx e che chiede a Mank invano 10$ a sostegno di Merriam). Battuta finale di Mank sulle dimensioni di King Kong e la verginità di Mary Pickford. Finale con comizio di strada di U. Sinclair (?) inquadrato di profilo per un attimo con Zoom 68’00”

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  1. PRESENTE 2’07”. SALTO IMPROVVISO A RIDOSSO DEL FINALE. J. HOUSEMAN FA I COMPLIMNTI A MANK PER LA SCENEGGIATURA COMPLETATA DI 327 PAGG.! E’ entusiasta e stupefatto di fronte a una grande sceneggiatore. Ma dice: Ma adesso quando arriverà “il ragazzo dal muso di cane” saranno dolori! Frase conclusiva di Mank sulla storiella della scimmietta e il suonatore di organetto. 70’07”

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  1. ESTERNO WILSHIRE BOULEVARD GIORNO – 1934 (FLASHBACK 5) 11’ 02”. Campagna elettorale California 1934 Frank Merriam versus Upton Sinclair. Incontro con il vecchio amico disoccupato ora uomo-sandwitch pro Sinclair; visione filmini-fakenewstipo cine-giornali negli intervalli delle sale cinematografiche contro Upton Sinclair: interviste a cittadini comuni, in realtà. tutti attori, creati per MGM da Irving Thalberg. Spasmodica attività di Mank per fermare questa indegna montatura centrata sull’anticomunismo dell’americano medio. Incontro con Thalberg: rifiuto dei premi per approvare tutto ciò. Mank, l’eroe. Finale con l’aggancio on corsa con la macchina di Marion Davis, lei non può aiutarlo, non vuole fare pressioni su Hearst, per bloccare Thalberg.81’09”
  1. PRESENTE 2’. CHARLIE (al secolo Charles Davies Lederer) CON IN MANO LA SCENEGGIATURA COMPLETA: LO ACCUSA DI ESSERE UNO SPORCO TRADITORE NEI CONFRONTI DI MARION DAVIS: “è tua amica fidata ed è mia zia!”  83’09”

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  1. ESTERNO NIGHTCLUB TROCADERO VIGILIA DELLE ELEZIONI NOTTE – 1934 (FLASHBACK 6) 7’57”

 Festa organizzata da L. B. Mayer e Irving Thalberg in attesa dei risultati delle elezioni. Mank scommette 24000 dollari e perde.   Shelley, regista cinegiornali anti-Sinclair, sta meditando e preparando il suicidio. Telefonata con la moglie. 91’06”

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  1. PRESENTE 5’06”. NUOVO INCONTRO CON IL FRATELLO Joseph parla chiaro. “Sempre seduto a tavola con Hearst e lo ripaghi insultando la sua donna” risposta: non è lei! Joseph: mi stai prendendo in giro. “Attento stai diventando il Buffone di Corte!” r.: Sono finito sono morto già da tempo. “Joseph hai scritto una splendida sceneggiatura” E tu! so che vuoi sostituire Thalberg , r.: no! Farò il regista. Mank guardando il fratello che prende la macchina per tornare a Hollywood, mormora è un Mankiewicz!… 96’12”

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  1. ESTERNO STUDI MGM VIGILIA DELLE ELEZIONI – NOTTE 1934 (FLASHBACK 7) 3’36”Segue dal precedente, ha il Parkinson, finirà paralizzato… “dammi quella pistola!” non gliela dà ma gli dà i proiettili. Mank a casa della attuale moglie di Shelley e le consegna i proiettili. Orrore ne ha una scatola nel cassetto! Suicidio di Shelley…99’48”

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  1. PRESENTE. 3’28” Incontro quadretto fiorito patetico-romantico con Marion Davies, ha letto il copione. “Sarebbe meglio non girare questo film…” 103’16”

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  1. INTERNO SINAGOGA - WIRLSHIRE BOULEVARD – NOTTE 1936 (FLASHBACK 8) 2’04” FUNERALI DI IRVING THALBERG 105’20”

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  1. PRESENTE 2’. SEGRETARIA PORTA VIA BOTTIGLIA DI WISKEY TELEFONATA DI ORSON WELLES (anche inquadrato): MGM vuole bloccare film facendo pressioni economiche su RKO in crisi economica. 107’20”

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  1. INTERNO SALA DA PRANZO DI SAN SIMEON – NOTTE 1937 (FLASHBACK 9A) 2’10”. Mank entra completamente ubriaco sono tutti protesi verso il proprietario e la sua Marion Davies ma c’è L.B. Mayer che racconta film in lavorazione sulla Rivoluzione Francese e sulla fine di Maria Antonietta (Norma Shearer, protagonista). Marion Davis sarebbe stata perfetta! Dice Hearst. Mank ubriaco rompe qualcosa e si spengono le luci… 109’30”

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  1. PRESENTE 2’16” IN CASA CON LA MOGLIE E UN FIGLIO ORMAI GUARITO IN ATTESA DELLE DECISIONI DI ORSON E DELLA RKO.“Ho sopportato di tutto non mi hai mai ascoltato io dico che dovresti dare retta a Mayer. Ma no, farai di testa tua . Ho tirato su i figli in modo Kosher. Non voglio più essere chiamata la “povera Sara”, MAI Più!” 111’46”

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  1. INTERNO SALA DA PRANZO DI SAN SIMEON – NOTTE 1937 (FLASHBACK 9B) 6’44” Mank Don Chisciotte della Mancia in difesa di Upton Sinclair (like Mank) possibile futuro presidente degli USA socialista, con Sancho (Mank?) creatore del nuovo stato, ma c’è anche Dulcinea (Marion Davies). Vomito disgustoso finale. Mayer lo definisce Buffone di Corte e ingrato perché il suo stipendio lo paga Hearst. 118’30”

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  1. PRESENTE 1’45” ARRIVO DI ORSON WELLES E’ TUTTO PRONTO ANCHE IL PAGAMENTO DI MANK ma Mank ha finito il lavoro e deve uscire di scena non avendo l’accredito come da contratto. Mank non accetta. 120’15”

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  1. INTERNO SALA DA PRANZO DI SAN SIMEON – NOTTE 1937 (FLASHBACK 9C)1’54” . Tutti sono scappati. Willy Hearst racconta la parabola della scimmietta e il povero suonatore ambulante. La scimmietta è Mank e il povero ambulante chi è?... 122’09”

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  1. PRESENTE 2’31”. SFOGO ISTERICO DI ORSON WELLES NEI CONFRONTI DI MANK CHE VUOLE APPARIRE COME COAUTORE DELLA SCENEGGIATURA IN BARBA AL CONTRATTO. CASSA DI BOTTIGLIE DI WISKEY DISTRUTTA CON RABBIA DA ORSON E MANK CHE SCRIVE: RABBIA PURIFICATRICE…124’40”

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  1. INTERNO BILTMORE HOTEL – NOTTE – FEBBRAIO 1942 PREMIAZIONE OSCAR 1’20”. 126’

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  1. RIO DE JAINEIRO, BRASILE 1942 – “IT’S ALL TRUE” – RADIO PRESS CONFERENCE 1’40”. 127’40”

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  1. 4’20” MINUTI DI TITOLI DI CODA

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HOPPER/WELLES: LA NEW HOLLYWOOD COLPISCE ANCORA

Dennis Hopper Ciak Wind

Il presente articolo è la traduzione in italiano di quello originale in inglese "'HOPPER/WELLES': THE NEW HOLLYWOOD STRIKES BACK" pubblicato dall'autore sul sito Wellesnet.com: https://www.wellesnet.com/hopper-welles-new-hollywood-review/

Sarebbe importante che il produttore Filip Jan Rymsza riuscisse a trovare un distributore per questa gemma emersa dallo scrigno filmico di The Other Side of the Wind per consentire ai cinefili italiani di poter vedere com'era l'ambiente della New Hollywood nel 1970. Un documentario che Ciro Giorgini avrebbe certamente fatto di tutto per mandare in onda su Fuori Orario: cose (mai) viste, la trasmissione culto della RAI. Hopper/Welles (2020) è uno strano oggetto wellesiano come sempre di difficile classificazione. Ufficialmente, infatti, si tratta di un documentario-intervista, ma è davvero molto di più. Dimenticate le celebri interviste come quella di François Truffaut a Hitchcock o quella di Peter Bogdanovich a John Ford o quella di William Friedkin a Fritz Lang: inizia come un'intervista, ma si trasforma, quasi immediatamente, in una sorta di dialogo socratico tra un giovane allievo e il suo mentore. Ma soprattutto non è un giovane regista a dialogare con il maestro, ma il contrario, in uno di quei giochi di specchi a cui Welles ci ha spesso abituato. Girato con lo stile “cinéma vérité”, ha le caratteristiche di un documentario antropologico che registra in maniera impietosa e oggettiva le debolezze e l'umanità di un giovane regista proveniente dell'immensa provincia americana che ha deciso di diventare un regista cinematografico e si è trovato a dover gestire un successo planetario che lo ha travolto: questo è il ritratto di Dennis Hopper, il regista del film culto Easy Rider (1969), che emerge da Hopper/Welles.

 

Nel novembre 1970, la data della realizzazione delle riprese di questo documentario, Welles aveva iniziato la lavorazione di The Other Side of the Wind e voleva che molti personaggi di spicco del cinema e dello spettacolo comparissero nella parte di se stesso nel film: aveva addirittura immaginato di coinvolgere John Lennon e inserirlo nel film. Dennis Hopper era riuscito con Easy Rider (1969) a sconquassare le regole del cinema hollywoodiano e Welles pensava fosse l'icona cinematografica più rappresentativa di quella Nouvelle Vague statunitense che affollava la festa in onore del regista Jake Hannaford, il protagonista di The Other Side of the Wind. Per realizzare le riprese di questo incontro, Welles aveva invitato Dennis Hopper, che stava lavorando a Taos in New Mexico al montaggio del suo secondo film Fuga da Hollywood (1971), nella sua sua casa di Los Angeles. 

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Il poster di Hopper/Welles disegnato da Tony Stella 

Hopper/Welles ha l'aspetto informale, tipicamente anni Settanta, di un resoconto audiovisivo di una discussione tra un gruppo di persone che hanno scelto di passare una serata insieme: non c'è uno schema da seguire e tutto è lasciato all'improvvisazione dell'hic et nunc. All'inizio, ad esempio, vediamo Hopper che mangia un piatto di pasta e parla con gli altri presenti, tutti giovani amici di Gary Graver, cercando di rispondere alle domande poste da Welles, sempre nascosto agli occhi della cinepresa: non vedremo mai il volto del regista durante tutto il documentario. Nelle due ore e mezza di incontro, Dennis Hopper e Orson Welles parlano davvero di tutto. Un autentico flusso di coscienza in cui i due cineasti si scambiano opinioni sul cinema europeo (Bunuel e Antonioni soprattutto, ma anche Stanley Kubrick e Sergej Ėjzenštejn), di magia e religione in rapporto alla creazione di film, di Amleto e Cristo, di rapporti conflittuali familiari e di politica e rivoluzione. Se non fosse un documentario sembrerebbe quasi una seduta psicanalitica. Welles, infatti, dopo alcune domande classiche riguardanti alcuni aspetti realizzativi relativi a Easy Rider o facendosi descrivere i passaggi narrativi di Fuga da Hollywood, incomincia a dialogare con Hopper su altri temi. Welles è abile nel porre domande che esulano dal contesto del lavoro di cineasta e nello stimolare Hopper a ragionare su questioni astratte. Il regista cinematografico, capace di creare pioggia o sole a suo piacimento, è paragonabile a un mago/stregone o a un Dio? Che cosa rende un film un'opera frutto di una visione personale del suo creatore? Si può fare politica quando si realizza un film come Easy Rider? Le risposte a queste domande mostrano alla macchina da presa un Dennis Hopper impacciato ma al tempo stesso affascinato dalla cultura di Welles e dalla sua sofisticata dialettica. Molto eloquente è il momento in cui Hopper, pressato da Welles sulla necessità di esprimere più chiaramente le sue posizioni politiche, reagisce come uno studente di liceo che non ha studiato bene a casa per l'interrogazione. Non sapendo come rispondere alla fine il regista di Easy Rider si difende dicendo “Sto ancora facendo film. Non sono un marxista-leninista e non sono John Wayne. Sono in mezzo alla strada, al fiume ”.

In almeno due passaggi del documentario qualcuno potrà avere la sensazione che Welles non sia da solo a porre le domande a Hopper. Mentre il giovane regista confida ai presenti di non aver avuto una infanzia felice, una voce diversa da quella di Welles, chiede al giovane regista “Cosa l'ha resa infelice?”. Chi ha posto questa domanda? A mio modesto parere, non si può escludere che questa voce provenga da Bert Schneider, il produttore di Easy Rider e di altri grandi film della New Hollywood. Ci sono almeno due scene in cui è lecito pensare che questa deduzione sia giusta. Nel primo Hopper, guardando fuori campo, indica qualcuno che ha gli occhi azzurri e che potrebbe essere perfetto per interpretare il ruolo di Cristo, dicendo: "Schneider dovrebbe interpretare Cristo!". Infine, a metà del documentario, Welles dice “Poco prima di partire, Bert Schneider mi ha detto «Chiedigli perché Henry Fonda lo ha definito un idiota »”, come se il produttore avesse appena lasciato la casa di Welles. Per capire a cosa si riferisse Schneider con questa domanda, invito i lettori a leggere l'inizio dell'eccellente saggio di Josh Karp sulla realizzazione di Fuga da Hollywood: https://www.esquire.com/entertainment/movies/a23287946/the-last-movie-dennis-hopper/

Non aggiungerò altri dettagli per non rovinare la visione del documentario ma sono necessarie alcune piccole annotazioni sul creatore di Hopper/Welles.

Il lavoro di Bob Murawski nell'assemblare (non montare) i materiali grezzi girati da Gary Graver in un ruvido 16mm in bianco e nero è stato molto rispettoso del lavoro di Welles. È davvero apprezzabile che il montatore abbia scelto di inserire nei titoli di coda del documentario l'insolita dicitura “Cutter” e non “Editor”, un'opzione linguistica che dimostra la modestia con cui Murawski ha voluto lavorare con i materiali filmici a disposizioneQuesto approccio mi ha ricordato non solo la scelta visiva usata da William Friedkin nel montare la sua intervista a Lang (vediamo sempre i ciak in campo nel corso di tutto il documentario), ma soprattutto quella realizzata dagli amici de Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone quando hanno scelto di non interferire in alcun modo nel montaggio provvisorio di Welles per proiettare la copia lavoro di Too Much Johnson nell'ottobre 2012. 

In conclusione vorrei guardare e discutere di questo straordinario documentario con qualcuno che ha vissuto quel momento storico: avevo in mente diverse persone che possono soddisfare questo desiderio e spero di poterne parlare con loro il prima possibile. A tal fine spero che Hopper/Welles venga distribuito al più presto in qualsiasi forma: nelle sale cinematografiche o in forma digitale su internet.

Un ringraziamento speciale a Filip Jan Rymsza e Ray Kelly che hanno reso possibile la visione di Hopper/Welles

SCHEDA

HOPPER/WELLES
Director: Orson Welles
Producer: Royal Road Entertainment (Filip Jan Rymsza)
Co-producers: Grindhouse Releasing (Bob Murawski) and Fixafilm (Wojciech Janio)
Executive producers: Jon Anderson, Jonathan Gardner
Cast: Dennis Hopper, Orson Welles with Janice Pennington and Glenn Jacobson
Director of photography: Gary Graver
Cutter: Bob Murawski, a.c.e.
Assistant editor: Dov Samuel
Camera operators: Gary Graver, John Willheim
Assistant camera: Connie Graver
Gaffer: R. Michael Stringer
Sound: Bob Dietz, Jussi Tegelman
Title design: Garson Yu
Running time: 130 minutes

INTERVIEW WITH RAY KELLY: THE STORY OF WELLESNET.COM

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Ray Kelly, the manager of the respected Wellesnet.com, gave us the oportunity to tell the story of the most important website dedicated to the cinema and life of Orson Welles. Massimiliano Studer asked some questions about the birth and development of Wellesnet to Ray Kelly.

How did Wellesnet get started?

Jeff Wilson, an admirer of Orson Welles’s work, created the website almost 20 years ago with the support of a few fellow enthusiasts. When it went online in March 2001, it had several pages dedicated to various projects and an active Message Board that allowed fans to communicate — this was long before Facebook and Twitter were popular. In 2006, Jeff upgraded the website with WordPress so that news posts could be added more easily. By the time the website had reached its 10th anniversary in 2011, it is fair to say Jeff was ready to move on. Running a website can be exhausting and expensive. He offered to sell the website and a few of us pooled our money together. However, it did not go smoothly. The person chosen to oversee the management and bills did not do a very good job, which is putting it mildly. The web host got into an argument with him and shut down Wellesnet over a $5 overdue payment. (I am not kidding you.) Mike Teal, who had been with Wellesnet from the start, quickly paid off that debt. I persuaded the webhost and our manager to turn control over to me.

On your website there are no sponsor at all. Who is financing Wellesnet and how much does that cost per year?

I pay for the annual web hosting fees, domain registration and cyber security measures out of my own pocket. I have repeatedly turned down advertising and want Wellesnet to remain independent. At one point, the annual operating cost was close to $300. I have shaved that down by one-third. Luckily, I have a loving wife Sally who has encouraged me to keep the website going.

What kind of impact has your style of management had on Wellesnet? Do you work alone or do you have collaborators?

I would like to think I bring a strong journalism background to Wellesnet. I have worked in the field since the early 1980s with experience in broadcast, print and online reporting. I am currently the managing editor for a daily newspaper in Massachusetts. Though I write the vast majority of the posts, Wellesnet does accept contributions from other writers. We have run submitted pieces from people ranging from Joanne (Hill) Tarbox, who grew up with Welles, to Alberto Anile (Orson Welles in Italy).

When you took over Wellesnet, did you work at a newspaper? Do you have group meetings before publishing articles? 

Yes, I was the arts and entertainment editor at The Republican in Springfield, Massachusetts, when I first took on Welllesnet. It may seem odd to take on website while working daily on entertainment stories, but I really enjoy it. I frequently turn to people I respect for feedback on something I am writing. Mike Teal, who manages the Message Board and Facebook page, is a solid sounding board and written some fantastic pieces on his own. He is wonderful guy. For me, one of the best things to have come out of Wellesnet is meeting film historian Joseph McBride, whose work I have long admired. I often turn to Joe for counsel. I have called upon others whose opinions I value, such as Michael Hinerman, Roger Ryan, Tony Williams and Larry Jackson to name but a few. Of course, there are authors like Josh Karp, Todd Tarbox, Simon Callow and Matthew Asprey Gear who have been invaluable to Wellesnet.

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Wellesnet assembles Woodstock Celebrates in May 2014. From left, Shirley and Todd Tarbox, Roger Ryan, Tony Williams, Mike Teal, Jeff Wilson and Ray Kelly.

How many hours of work do you work on Wellesnet each week?

It varies. This past week (August 2020), I worked on the website every day because of developments with the forthcoming Hopper/Welles movie. I put in a bare minimum of 15 hours a week.

How do you select the articles written by people outside Wellesnet for publishing?

I look for pieces that have been well-researched and bring a fresh perspective to our understanding of Welles' work. I don't have a problem with an article that may offer a view quite opposite mine, but it has to be based in fact. I love it when someone comes to me with something totally surprising. For example, Robert Kroll did an article on a little known television remake of Citizen Kane that Welles pitched during the mid 1950s. Professor Kroll analyzed a 62-page story proposal prepared by Welles. It may be one of my favorite submissions to Wellesnet.

When did you understand Wellesnet became an influential source for film scholars? Do you remember a specific event for this: An article on a famous newspaper/journal or a quotation in a book?

When Jeff was the helm, American Movie Classics channel profiled the website, which was monumental. I remember seeing Wellesnet acknowledged in the end credits of Chuck Workman’s documentary Magician and being thrilled. When the Sedona Film Festival asked me to be a keynote speaker alongside Beatrice Welles, I was floored. During my reporting on The Other Side of the Wind, I found my opinions being sought by The New York Times, The Guardian and BBC radio. It was then I realized that Washington Monthly was right when they called us the “go-to site for all things Welles.”

Ray Kelly with Orsons awards in Sedona

Ray Kelly poses with Orson Welles's two Grammy Awards, honorary Academy Award and AFI Lifetime Achievement trophy at the Sedona International Film Festival in February 2015.

Ray Kelly's interview to BBC Radio about The Other Side of the Wind

How did managing of Wellesnet change when Facebook became more powerful in spreading the news?

Facebook is a tool, like Twitter, we use to lead people to the website. I have the analytics. The traffic to the website dwarfs that on our Facebook page. 

How many articles Wellesnet has published until now? Which is the most popular? Where are the visitors to Wellesnet coming from? 

We have published more than 1,200 posts since 2006. The most popular posts involve the meaning of Rosebud in Citizen Kane, the making of The Other Side of the Wind, and the life of his daughter with Rita Hayworth, Rebecca Welles Manning. Wellesnet tracks tens of thousands of visitors each month from every continent but Antarctica! I tallied 456,000 unique visitors last year. The bulk of our readers are from North America, followed by Europe and South America. We have a much smaller following in Africa and Asia.

Ray Kelly

Ray Kelly

In 2015, you published Orson Welles’s will. How did you get this important document?

There was a legal battle following his death between his wife of 30 years, Paola Mori, and his girlfriend, Oja Kodar. His will, death certificate and numerous other documents were filed in the U.S. courts, which makes them public documents. Welles was a talented filmmaker, but he left his personal and business affairs in quite a mess when he died. One of the reasons so many Welles projects are unavailable to the general public 35 years after his passing is because there are unresolved questions of ownership. For example, there are some television works that the Estate is still trying to sort out. Hopefully, these will become easily available in the near future.

What has been your favorite moment during your time at Wellesnet?

I traveled to Los Angeles in December 2017 during the editing of The Other Side of the Wind. I met with producers Frank Marshall, Filip Jan Rymsza and Peter Bogdanovich and editor Bob Murawski. All of them were incredibly generous with their time and forthcoming with their answers to my many questions. I was so excited to be in the room where the reels and reels of the workprint were stored. I sat at a desk with Welles’s copies of his scripts. In addition, I was given the opportunity to watch footage that had only recently been discovered and edited by Bob Murawski. It was like being a child on Christmas morning!

Joseph McBride Frank Marshall Ray Kelly and Bob MurawskiThe Other Side of the Wind actor Joseph McBride, producer Frank Marshall, Wellesnet's Ray Kelly and editor Bob Murawski at the New York Film Festival in September 2018

 Orson Welles has had a special relationship with Italy. In your opinion how has his work been treated in Italy and by Italian scholars?

Recently, Alberto Anile wrote an article about Josh Grossberg's hunt for the lost cut of The Magnificent Ambersons for La Repubblica. I got a telephone call from Beatrice Welles, who had been alerted by her cousins in Italy. She was very excited by the space given to it in La Repubblica. She said to me, "Italy has always loved my father." I think that is very true. Look at the work done by Anile, the late Ciro Giorgini, Alessandro Aniballi, and yourself. Websites like Formacinema and Quinlan.it do much to keep the legacy of Orson Welles alive. Of course, we cannot forget one of Welles's first film projects, Too Much Johnson, had its world premiere at Pordenone and the late period masterpiece The Other Side of the Wind at Venice! Italy is indeed very special.

 
 

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