Pur nell’impossibilità di quell’opera di costruzione, restituzione e fruizione di reti e riti collettivi, a cominciare dalla splendida location della Pescheria-Centro di Arti visive in cui muoversi ed interagire a piacimento fino allo sciamare anarchico e strabordante degli studenti che lo rendevano un laboratorio-palestra a schermi aperti, questa edizione extra-ordinaria del Festival di Pesaro è riuscita a restare fedele allo spirito originario e alle visioni di Nuovo Cinema, in un’onda lunga quasi distopica ben resa dallo splendido poster di Virginia Mori e dalle parole di Pedro Armocida “Abbiamo comunque cercato di organizzare un festival che fosse il più possibile “in presenza” perché pensiamo che la sala e l’arena cinematografica siano il luogo di elezione per condividere insieme un progetto culturale pieno di senso, di film, di emozioni e di sguardi”.
E in effetti i film in concorso riecheggiano le sezioni che hanno fatto la storia e la grandezza di questo Festival a cominciare dall’attenzione data al rapporto tra immagini, musica e sonorizzazione: purtroppo niente Muro del suono ma “Thick Air” di Stefano Miraglia, un collage inteso come arte plastica trasposto al cinema in un montaggio modulare la cui influenza musicale è insieme estetica ed estatica; “Kill it and Leave this town” di Mariusz Wilczynski un film d’animazione costruito sul ritmo musicale e vocale dei dialoghi che sono stati registrati prima di costruire le immagini, accompagnate anche dallo struggente blues di Tadzio Nalepa (e a riprova che la musica sia la prima ed assoluta ispirazione del regista, il suo prossimo film sarà su Tom Waits) e lo strepitoso “The nose or conspiracy of Maverick” di Andrej Khrzhanovskij, una matrioska postmoderna di tecniche di ripresa e di riferimenti visivi e musicali che spaziano tra Sostakovic, Rossini, Verdi, Glinka e Chaicovsky in una storia in tre sogni.
Le lezioni di storia di Federico Rossin (dedicate l’anno scorso al cinema femminista) hanno trovato un’eco in due bellissimi film, molto diversi tra di loro che hanno mostrato vicende contemporanee di Grecia e Brasile. Il film “Bella” di Thelyia Petraki grazie anche a scelte stilistiche ed estetiche estremamente azzeccate (in un continuo passaggio tra diverse texture materiche e formati come il Super 8, Super 16, Vhs, home video e i materiali d’archivi) ci catapulta negli anni Ottanta di una Grecia che subisce la fascinazione statunitense mentre già stanno arrivando le prime avvisaglie della crisi del capitalismo. Felipe Bragança invece continua il percorso legato al tropicalismo iniziato lo scorso anno con “Tragamme a Cabeça de Carmen M” (dove il Brasile contemporaneo era cantato come un’autopsia e non come utopia), e con “Um Animal Amarelo” vira nel realismo magico in un triplice biopic immaginario (di una famiglia, di un film e appunto del Paese stesso) e ci porta nei meandri degli ancora irrisolti legami tra Brasile, eredità coloniale e identità in divenire con una netta denuncia della deriva fascista di Bolsonaro.
Una Storia che si fa anche ancestrale e affonda in miti e leggende tutti legati all’acqua, elemento inafferrabile, proteiforme e liminale: così “Ts’onot” di Oda Kaori che amalgama diversi tipi di riprese e formati (dall’ I-phone per le riprese subacquee agli 8 mm con un lavoro sulla luminosità in post-produzione) per collegare il passato maya al presente; “Lua Vermella” dello spagnolo Lois Patino in una Galizia tutta virata sui toni del rosso, che trae ispirazione dall’Angelus di Jean-Francois Millet, popolata da streghe velate e da un Oceano-bestia che richiede sacrifici umani; “Aggregate States of Matters” di Rosa Barba dove Kronos è accumulazione ma la stratificazione materica dei ghiacciai delle Ande Peruviane (riprese in uno strepitoso 35 mm) che si stanno sciogliendo assurgono a simbolo della metamorfosi e della crisi che ne segue. E persino gli adolescenti filippini iperconnessi di “Death of Nintendo” credono alla Manananggal (alla cui figura è dedicata il primo film horror di Jose Nepomuceno del 1927) ai fantasmi e agli sciamani coi loro riti di virilità!
Ma la Storia è anche storia personale che grazie all’intermediazione artistica diventa film sì personale ma non strettamente auto-biografico anche se auto-terapeutico: oltre al già citato “Kill it and Leave this town” di Mariusz Wilczynski meta-riflessione su “come eravamo, come non siamo più, come vorremmo essere ancora” ma anche sulla forza dell’amore che trasforma i dolori in risata, “A metamorfose dos passaros” di Caterina Vasconcelos (vincitrice sia del premio Lino Miccichè che della giuria Giovani) dove i ricordi familiari e l’elaborazione dei lutti si intrecciano alla speranza e al potere consolatorio dell’accettare i propri limiti.
E come dimenticare i critofilm curati da Adriano Aprà, che ogni anno regalavano chicche d’autore come “Orson Welles The one man’s band” di Oja Kodar e Vassili Silovic, “Eisenstein’s Visual Vocabulary” di Yuri Tsivian o ancora “Rocha Que Voa” di Eryk Rocha? Ebbene, il portoghese Paulo Abreu con “O que nao se ve” ci dà una lezione di cinema mostrando la costruzione del percorso di un film, un film nascosto di cui non si era reso conto se non quando ha riguardato dopo anni le immagini: un film sul cinema, sull’amicizia, sulla necessità di accogliere l’imprevisto che apre al rapporto con tutto quello che non si vede. In ultima istanza il rapporto tra visibile e invisibile apre un dibattito più ampio sulla forma filmica: il film è solo l’oggetto completo e tangibile che esce dalla post-produzione o lo è anche il raw-material, il materiale grezzo che può contenere a sua volta in potenza altri e diversi film che però non vedremo?
Il digitale e le nuove tecniche hanno rivoluzionato il concetto di visione e di sguardo (anche) sperimentale e soprattutto se tutte le immagini sono (o possono diventare?) immagini cinematografiche: così in “Non si sazia l’occhio” di Francesco Dongiovanni, questo distico racchiude l’ossessione cinematografica e sdoppia lo schermo con immagini indipendenti che si modificano creandone altre, secondo l’idea godardiana che anche una sola immagine può essere inesauribile. “Subject to review” di Theo Antony è dedicato alla tecnologia dell’Hawk eye (il cosiddetto “occhio di falco”) nel tennis, che oltrepassa la dimensione umana e rende(rà?) superfluo il giudice di sedia se non come volto a cui addossare l’errore per non mettere in discussione un sistema basato su pixel e algoritmi. Tecnologia che apre nuove prospettive (anche) cinematografiche di visioni e mondi prima nascosti all’occhio umano. “Il n’y aura plus de nuit” di Eleonore Weber (menzione speciale della Giuria Giovani) utilizza immagini non fatte per essere viste in quanto documenti strettamente operativi (immagini riprese da droni di soldati americani e francesi in zone di guerra) per svelare e rivelare come i piloti creano la realtà a partire da quello che credono di vedere, completamente dipendenti dalla loro pulsione scopica. Il titolo si spiega alla luce della sorprendente scena finale dove la telecamera ad infrarossi arriva ad annullare la dimensione binaria antropologica notte/giorno.
Uno sguardo che affronta e si confronta con l’arte, sia in riferimento al ruolo e all’impegno dell’artista (in “Um Animal Amarello” il cineasta è considerato “un pirata che pensa di aver inventato il mare e che solo lui abbia mai navigato”….), sia in riferimento alla costruzione di inquadrature che sembrano tableaux vivant (Caterina Vasconcelos ha studiato Belle Arti ed ha un’attenzione maniacale a dettagli “dove si nascondono i misteri”, scene come quadri fiamminghi sospesi tra la verticalità materna ereditata dalle piante e l’orizzontalità del mare,ambiente naturale del padre), o ai mille riferimenti iconici di “The nose or conspiracy of Maverick” (tra cui uno spettacolare riferimento all’Urlo di Munch, ma anche a Chagal, alla celeberrima scena della carrozzina nella Corazzata Potemkin, a Oblamov, Gogol, il Maestro e Margherita di Bulgakov, sino ad affrontare il dibattito tra formalismo e realismo nella musica sovietica e la censura staliniana col suo “lasciate che i nemici abbiano paura”) e a quelli di tutti i grandi artisti polacchi (tra cui Andrzej Wajda, Krystina Janda, Zgbiniew Rybczynski) voci narranti di “Kill it and Leave this town”. Ma è soprattutto lo splendido “Un baile con Fred Abstrait seguido de una pelicula en color” di Bruno Delgado Ramo che esplora il rapporto tra linguaggio e ricerca artistica: girato in super8 è la relazione tra macchina da presa e camera da letto, entrambi spazi chiusi e bui che possono aprirsi alla luce e ai colori in una danza di immagini astratte ispirate ed alternate al testo di Xavier de Maistre “Viaggio intorno alla mia camera”, un caleidoscopio da ricostruire in un finale che rimanda ai “Soliti Sospetti”.
Particolarmente rilevante in questo momento storico è stata poi la proiezione di film italiani in Piazza come viatico di un loro passaggio in sala: il corto “Ape Regina” in collaborazione con Emergency, incontro tra il dialetto di Elsa, apicoltrice e le parole smozzicate di Amin (Kallil Kone, già visto in “Fiore Gemello” di Laura Luchetti) che si capiscono e si proteggono l’un l’altra; la presentazione di “Rosa Pietra Stella”, microcosmo femminile di esistenze e resistenze a Portici, e due film molto diversi in cui ci sono sconfinamenti e contaminazioni tra il linguaggio cinematografico e quello teatrale: “Il terremoto di Vanja: looking for Checov” dove Vinicio Marchioni racconta le crepe dell’Italia attraverso i temi di Checov portando il terremoto davanti a chi l’ha vissuto davvero e “Il caso Braibanti” (vincitore del premio del Pubblico) “una vita che è stata un’ininterrotta contestazione” che unisce cinema, teatro, storia, archivio, memoria, ricordi personali e denuncia in un legame con la splendida sigla di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti dove la tripla PPP, ha un triplo significato: omaggia Pier Paolo Pasoliini, il primissimo piano dell’inquadratura cinematografica e riecheggia il più che pianissimo degli spartiti musicali alludendo “alla solitudine di chi rimane sveglio nella coscienza di un cattivo presagio” mentre cadono i tre chiodi.
Infine attesissima come ogni anno non poteva mancare la monografia, dedicata quest’anno a Giuliano Montaldo a cura di Pedro Armocida e Caterina Taricano corredata da una splendida intervista di David Grieco che potete vedere a questo link https://1drv.ms/v/s!Aqz4ofVD5YDghedh-HlBKD8vZqd2Gw?e=ALyR4h