Nov 22, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

NUOVE RECENSIONI

MISS MARX: UN FILM CHE SORPRENDE E APPASSIONA, IN CUI SI SPECCHIA L'ANIMO FEMMINILE DELL'EPOCA E DI OGGI

foto miss marx 10

La passione di divulgare, affermare, realizzare le parole e il messaggio del padre in modo concreto si unisce nell'anima di Eleanor con la forte volontà di vivere il marxismo in ogni aspetto della sua vita, anche quello privato, facendo delle scelte determinanti, in netta contrapposizione con le norme
dell'epoca, ma anche scandalose per la sua stessa famiglia.

La scelta del compagno "alternativo" al modello borghese si rivela però, proprio nella scena in cui entrambi recitano Casa di bambola di Ibsen, all'improvviso, l'esatto contrario delle aspettative di Miss Marx. È proprio a partire da quel momento che le si cominciano a rivelare tutti i lati negativi, correndo a precipizio in un baratro che la divorerà. Un uomo spendaccione e dissoluto, che fuma oppio, scivolando quasi immediatamente nella tossicodipendenza, con problemi di salute che si aggravano, che ben presto non scrive più, non recita più, ma che soprattutto intorpidisce e inaridisce gradualmente, inizialmente in modo impercettibile, l'impeto e la gioia dei lei.

Non solo il loro rapporto è viziato dalle continue scoperte di tradimenti, di debiti e di ricorso ai prestiti dei più cari amici di lei (tra cui Engels), ma spesso lui è lontano per periodi sempre più lunghi e non condivide più neppure l'essenza delle teorie marxiste sulle quali lei ha fondato ogni principio della sua vita. Eppure, quello che sorprende, ma al contempo fa rabbia a qualsiasi donna guardi il film, quella grande rivoluzionaria che è Eleanor non sa rifiutarlo, non sa ribellarsi, non sa spezzare quella catena di soprusi morali che lui commette ai suoi danni continuamente. Lei che vuole difendere i diritti dei lavoratori e delle donne vessate da ritmi di lavoro intollerabili, non sa, lei per prima, ribellarsi a un'intimità che la incatena a una valanga di bugie e ad un rapporto falso e vuoto. Lo dice la stessa protagonista: il suo compagno è privo di morale. Ma il marxismo è un sistema e una filosofia di vita, non consiste nell'avallare comportamenti sregolati e incoerenti.

Così nelle scene finali, lei cade in una depressione profonda, alimentata spesso dal ricordo di un padre che apparentemente rispettava lei e sua madre, ma che in realtà le lascia in eredità anche un fratellastro "buono come lei"! La scoperta, tremenda e lacerante, la getta nella disperazione: comprende che il rispetto verso il genere femminile è in realtà solo finzione. Il padre, come del resto suo marito, hanno tradito la sua fiducia di donna che crede nell'emancipazione reale della donna!

Tussy e Aveling Miss Marx

Così nelle ultime scene, dopo aver fumato l'oppio, diventa preda di un furore direi decisamente bacchico: è invasata, balla in modo sregolato, implode internamente, anziché esplodere nei confronti del suo compagno. È una danza di liberazione forse dalla sua morale, dai precetti suoi e del padre, dalle norme che la razionalità e la società marxista le aveva imposto; ma è anche una danza degradante, lacerante, come accade per le Baccanti sul monte Citerone, in cui si perde di vista proprio la dimensione umana e civile. Come le Baccanti arrivano a sbranare Penteo, perché, invasate da Dioniso - infatti non riconoscono Penteo come il figlio di Agave ma lo credono un leone - così Eleanor fa a pezzi tutta la sua vita, tutti i suoi ideali sui quali ha fondato la sua esistenza, tutta la dottrina marxista, alla quale aveva dedicato ogni sforzo e ogni pensiero, tutta la sua vita privata che l'ha condotta a tale degrado. E la notizia del suicidio, sebbene nota, giunge davvero inaspettata alla fine del film con le scritte finali che sono di grande impatto sullo spettatore.

Così resta intatta la figura di una donna che, tra le prime, non è riuscita a sradicare una mentalità fortemente maschilista che la penalizza e la umilia: del resto è una mentalità che ancora oggi, dopo più di cento anni, si fa fatica a sradicare!

ALCUNE CONSIDERAZIONI CRITICHE A PROPOSITO DI MISS MARX*

Miss Marx 1

Miss Marx, di Susanna Nicchiarelli, si può dire, è un film atteso da almeno mezzo secolo1. La lunga attesa ha però fatto sì che oggi abbiamo una biografia cinematografica molto rigorosa e, al tempo stesso, un probabile, possibile cult movie. Occorrono alcune premesse per capire di cosa stiamo parlando.

Si tratta di un Biopic, come si dice oggi, cioè di una biografia cinematografica, filmica, di Eleanor Marx, ultima nata di Karl Marx2. E’ importante però ricordare che Karl Marx, tra le sue varie e numerose opere filosofiche, aveva anche scritto insieme a Frederick Engels Il Manifesto del Partito Comunista, uscito a stampa prima in tedesco e poi in varie altre lingue nel 1848. Con tutto quello che ne è seguito fino a oggi. e oltre. Eleanor Marx è nata , nel 1855. S. Nicchiarelli, ha scelto di portare sullo schermo la vita pubblica e privata di Miss Marx a partire dal momento in cui si celebra al Park Cemetery di High Gate il funerale di suo padre, nel 1883 per arrivare fino alla sua morte (1898) per suicidio. Si tratta dunque di un Biopic molto parziale, riguardante gli ultimi quindici anni della sua vita.

 

 

A ben vedere, il titolo è anomalo e suscita pensieri e domande. Poteva essere Eleanor Marx oppure si poteva utilizzare il nomignolo familiare Tussy (visto che la regista ha dedicato il film precedente a un’altra donna famosa titolandolo con il suo nomignolo, Nico). Tradotto in italiano suona “La signorina Marx” che indica una figlia che non si è sposata, cioè una “zitella” o una donna nubile, cioè sposabile. Bene, titolo quanto mai azzeccato perché, già ancora prima di vederlo, fa riflettere.

Non prima , ma dopo aver visto il film il titolo invece mi fa venire in mente un autore contemporaneo alla Tussy, Arthur Schnitzler3 (di tredici anni più giovane, ma campato molto più a lungo), La signorina Else (Fräulein Else) del 1924, laddove il suicidio non è una sconfitta, ma un atto di accusa, come di fatto lo è anche quello di Eleanor. Titolo azzeccato dunque perché ci dice in due parole chi è Eleanor: la figlia più giovane, l’ultima nata (il bastone della vecchiaia…) senza figli ne marito.

Dunque la vediamo già nella prima inquadratura nel discorso al funerale del padre. Il film ha il pregio assoluto di aver rappresentato, costruito, messo in scena, tutti, o quasi, i personaggi secondari, quelli fondamentali per capire l’atmosfera dell’epoca e con una precisione incredibile (Luchino Visconti docet). Non manca nessuno o meglio manca Karl che si vede solo in una sequenza finale splendida, quella del gioco di famiglia sulle le domande dei propri valori ideali.

Nel film c’è un interessante intreccio tra gli obblighi della militanza e quella dei sentimenti ma dove questi sembrano confliggere con quelli. L’attrice scelta è perfetta: le foto d’epoca sono in B/N e quindi i capelli rossi li ha scoperti la regista, anche lei rossa… E forse il nomignolo Tussy fa riferimento a questa caratteristica fisica. Per inciso. si potrebbe pensare a una galleria delle Rosse nella storia del cinema (la Eleanor della Nicchiarelli rimanda alla Maureen O’ Hara di Un uomo tranquillo di John Ford). E il film, così come è stato voluto dalla regista, ci rappresenta la figlia prediletta di Marx come una donna adulta sempre decisa, volitiva ma solare e spesso sorridente. Ed è Eleanor che discute in pubblico della condizione della donna nel presente e nel futuro, evocando i passi più imbarazzanti del quarantottesco Manifesto (l’abolizione della famiglia, volgarmente riassunto in “comunanza delle donne e dei figli”), parlando di poligamia e monogamia e concludendo a favore di quest’ultima.

Vedo che buona parte dei commentatori hanno superficialmente usato la formula odierna dell’ Amore tossico per interpretare sinteticamente questo film nei suoi momenti, diciamo così, meno politici: la relazione d’amore di Eleanor con Edward Aveling, medico, militante socialista, scrittore mediocre, seduttore seriale e anche parassita (ai danni dell’eredità engelsiana percepita da Eleanor), nonché oppiomane. In più quest’uomo è odiato da tutto l’ambiente familiare e politico dal quale, stranamente e nonostante tutto, non si è mai separato. Nella rappresentazione che ce ne dà il film noi vediamo una Eleanor innamorata, forse “persa” ma non inconsapevole, dice sempre “Lo amo” e anche con espressione del volto ispirata e sorridente. Non piange mai e quando le fanno notare tutto quello che lui è e che fa (e che lei sa meglio di tutti) non risponde, ma esprime con i suoi occhi chiari tranquillità, pensando “tanto torna sempre da me!”.
E la smentita più evidente di questo amore sbagliato la regista ce la offre in una breve ma fondamentale sequenza della durata di non più di 5’ ed è l’unica volta in cui la vediamo piangere disperata come tradita dal suo grande amore: quando Friedrick Engels, nel letto di morte, completamente afono per il cancro alla gola, scrive il nome su una lavagnetta del vero padre di Frederick Demuth (la cui madre è Helen Demuth, la fedelissima governante della madre), quello di suo padre, Karl Marx! Quando una figlia si innamora perdutamente di suo padre possiamo parlare di amore tossico? Non credo proprio, e non c’è bisogno di evocare il vecchio Freud per dire di cosa si tratta!

E Aveling, quest’uomo così orribile, che fa? La aiuta in tutte le sue attività, anche quelle politiche di militanza socialista (il film ci fa assistere al tour statunitense con i due conviventi che guidano la Lega Socialista a incontrare organizzazioni operaie). Diventato commediografo, la coinvolge nella sua attività teatrale, recita con lei Casa di Bambola di Ibsen. La aiuta nella traduzione di Madame Bovary e anche del primo volume del Capitale in inglese. La Nora di Casa di Bambola e Emma Bovary4 somigliano a Eleanor Marx? Uno spettatore distratto e preso dallo sviluppo della narrazioni filmica può pensare soprattutto a Emma Bovary, per il suicidio, ma è del tutto evidente che la personalità e il comportamento delle due “eroine” della grande letteratura dell’epoca vittoriana ricordano soprattutto il dott. Edward Aveling (vanesio con la sua strana fissazione sui fiori…). Ed è banale ricordare il commento altrettanto epocale di Flaubert: “Emma Bovary c’est moi!”. Ma non è banale purtroppo, anzi molto faticoso per chi scrive, affermare che il film, vorremmo dire nel suo retrogusto, ci porta, ci spinge a pensare che Edward Aveling, a sua volta, ricorda lo stesso Karl Marx5 (ovviamente mutatis mutandis)! E certo non solo per il tradimento con la governante, ma anche per l’incapacità di occuparsi del benessere dei suoi familiari (in primis di sua moglie) e di accettare disinvoltamente i continui versamenti a fondo perduto dell’amico Engels…

Ma questo film straordinario, straordinario lo è anche e soprattutto per la sua colonna sonora la quale si presenta subito con i titoli di testa ed è un vero pugno nello stomaco! Viene da pensare: dissonanza? La dissonanza ha un ruolo fondamentale nella composizione musicale ma può essere anche molto fastidiosa, ancora di più se parliamo del leit motiv di un film. Vengono in mente Stanley Kubrick ma anche Nanni Moretti (in particolare Habemus Papam!) per ricordare che il leit motiv spesso ha sigillato e consolidato cult movie6. Su questo punto deciderà il corso del tempo. Resta però la sensazione che ci si trovi di fronte a una nuova forma di Kitsch, per dirla con Gillo Dorfless, che pure ne ha fatta una quasi apologia. Dobbiamo però aggiungere, su questo aspetto delicato che occorre mettere in evidenza due sequenze, definibili anche come sequenze topiche: quella della cerimonia in memoria dei Comunardi, sulla barca placidamente navigante sulla Senna il coro dell’Internazionale cantato in francese (sulla falsariga della Marsigliese) e quella della Eleanor che fumando oppio con Edward Aveling (strafumato) entra in una dimensione allucinatoria (attualizzando: tipo pasticca di LSD) e si scatena in una sorta di danza sabbatica.

Quest’ultima splende in tutta la sua forza immaginativa, coloristica e musicale e ci offre l’interpretazione firmata personale della regista, una Eleanor che si mostra in uno stato di trance danzando ispirata da una musica punk-rock (?) e mostrando tutta la sua rabbia repressa. Nel suo profondo vive una delusione profonda non solo contro Aveling ma contro quel mondo in cui è cresciuta. Un mondo in cui le donne, con la rivoluzione degli uomini, non avranno nulla da guadagnare. La sequenza è pochi minuti prima del finale.

Quella della cerimonia sulla Senna è altrettanto significativa: tutti questi uomini rivoluzionari, puliti e profumati, vestiti con le redingote che cantano in francese. E il vocalist, la voce del coro, è quella di Edward Aveling che viene anche inquadrato in primo piano. Eleanor non è in primo piano e la sequenza ci vuole comunicare che la rivoluzione sarà quella degli uomini, questi uomini pomposi, supponenti e fragili al tempo stesso!

In breve una nota conclusiva provvisoria, in attesa di poter riesaminare il film.
La storia, quella storica vera e documentata, è di una complessità enorme e forse è per questo che c’è voluto più di mezzo secolo per far sì che una donna regista, coraggiosa, si decidesse ad affrontarla. La complessità è stata trasformata in una scansione narrativa adeguata e impeccabile. Ma questo film, verrebbe da dire, non è per tutti e nei tutti ci mettiamo anche critici paludati e di lungo corso che se la sono cavata con lanci mediatici ovvero segnali di fumo. Determinando di conseguenza diffuse distorsioni percettive, che si possono risolvere solo con una ripetuta visione del film.

In conclusione qualche domanda.

In molti casi come questo, spesso i registi, nella fase della post-production, in coda o nei titoli di coda, lanciano dei brevissimi flash-back che cercano di riannodare sequenze separate troppo distanti tra loro o mettere a fuoco personaggi trascurati. Qui abbiamo soltanto il quadro familiare citato che è una specie di tableau vivant.
Perché non aggiungerne altri?

Sulla chiusa secca di una riga sulla data del suicidio, perché non inserire almeno qualche riga in più?

Infine non c’è alcun dubbio che questo film, come pochissimi altri, lascia nella mente dello spettatore tanti motivi di riflessione, anche in una dimensione pseudo-autoanalitica.

NOTE

Questo scritto è frutto del lavoro di discussione con Agnese Titomanlio, mia moglie, sulla rispettiva percezione personale della visione del film, dopo averlo visto una sola volta in una sala cinematografica.

1. La prima biografia aggiornata di Eleanor Marx è datata al 1967, coincidente con il convegno internazionale tenutosi a Londra per celebrare il centenario della pubblicazione del primo volume del Capitale: biografia seguita da numerose altre.

2. E’ importante ricordare che Marx, dopo la sua vita di esule (con la moglie Jenny Von Westphalen e figli), stabilitosi a Londra, si è dedicato esclusivamente alla costruzione del capolavoro di tutta la sua vita, il trattato di Critica dell’economia politica, dal titolo Das Kapital (Il Capitale), opera in quattro volumi, di cui solo 3 editati e solo il primo rivisto e corretto da lui stesso, a partire dall’inizio degli anni ’50. Quest’opera incompiuta e infinita lo ha costretto a disinteressarsi dei problemi quotidiani riguardanti una famiglia fatta di sole donne (i due maschi morti da piccoli), inclusa la fedele Helen Demuth. Passava l’intera giornata alla Biblioteca del British Museum (dove si può vedere ancora il tavolo che era riservato a lui) la sera-notte a scrivere, scrivere…

3. Medico viennese e “amico” di S. Freud grande scrittore. Uno dei suoi capolavori, Doppio sogno (Traumnovelle) ha ispirato Stanley Kubrick per il suo Eyes Wide Shut (1999), che trasferisce l’azione descritta nel romanzo dalla Vienna imperiale alla New York “capitale” dell’Impero americano.

4. Questi due capolavori della letteratura mondiale hanno prodotto una lunga serie di film, Madame Bovary in particolare, da cui si è formato il termine Bovarismo per indicare un modello genetico negativo, affidando alla Nora di Casa di Bambola la versione identica ma positiva. E’ da segnalare l’ultima versione di quest’ultima il film diretto da Joseph Losey del 1973 con Jane Fonda.

5. Fermo e inossidabile restando, nella sua grandezza e attualità, il Karl Marx filosofo e impietoso analista del sistema capitalistico di produzione, specialmente quello dei Manoscritti del ’44 e quello del I e III vol. del Capitale.

6.l leit motiv de Il terzo uomo (Carol Reed 1949) eseguito con il suo stranissimo strumento da Anton Karas resta ancora oggi il modello più impressionante.

"MORIRAI A VENT'ANNI": UNA PERLA SUDANESE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

You Will Die at 20 Mazin Ahmed

Di Aldo Nicosia*

Confesso di non aver mai visto, prima di Sa-tamut fi’l-‘ishrin (“Morirai a vent’anni”, 2019), di Amjad  Abu’l-‘Ala‘, alcun film sudanese. Forse potrei consolarmi al pensiero che ne ho persi solo 6 (lungometraggi di fiction). Nel mio breve saggio del 2007, Il cinema arabo, non ne ho menzionato manco uno, ma, a parziale mia discolpa, devo premettere che prima dell’avvento di youtube e altri canali internet, non era facile procurarsi i film del mondo arabo. Cercherò di rimediare nella mia prossima monografia, inshallah, se Dio vorrà.

Nonostante il clamore mediatico e il successo ottenuto dal film del giovane Abu’l-‘Ala’, con  premi e  riconoscimenti internazionali (anche all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, con un Leone al futuro per la migliore opera prima), o forse a causa di ciò, non mi sono precipitato a vederlo. Ammetto che a volte mi lascio condizionare negativamente dalla risonanza internazionale, e anche dai titoli: chissà in forza di quale meme virulento, quel “Morirai a vent’anni” mi appariva come un banale auto-spoiler. 

Ebbene, dopo averlo visto, mi sono pentito di averlo ignorato. Il film è stato per me una catartica rivelazione, e tralaltro ben calata nell’attualità, nel bel mezzo dei bombardamenti mediatici più o meno apocalittici (della  serie “Morirai di Covid-19”). Sono persino riuscito a trovare, senza alcuno sforzo, qualche parallelo tra alcuni degli interrogativi suscitati dal film e l’attualità. Ad esempio, da un lato il tema delle profezie, dall’altro quello dei responsi di una scienza medica sempre più probabilistica, ma spacciata come verità indiscutibile. Ma torniamo al film e al suo devastante incipit.

In un piccolo villaggio di una remota regione del Sudan, una donna porta in braccio il suo neonato innanzi ad uno sheikh di una confraternita sufi. Muzammil, il nome del bambino, per un imperscrutabile e immutabile decreto divino, dovrà morire al compimento dei suoi vent’anni.

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Cosa succede nella tua vita quando già da bambino ti vedi recapitare un così funesto e preciso vaticinio, con l’aggravante che nel tuo microcosmo familiare e sociale tutti ci credono e non perdono occasione di ricordartelo? Troisi avrebbe minimizzato: “Mo’ me lo segno”, ma lui era già maturo, e soprattutto non gli era stata rivelata la data di “scadenza”.

La vita della famiglia del bimbo si blocca in quell’istante. Il tempo, da quantità lineare, diventa un buco nero, un vortice che avviluppa dentro di se’ qualsiasi speranza e progetto di vita. In un villaggio alla periferia del mondo e quasi fuori dal tempo, il fatidico countdown  viene così scandito da linee, graffiti  incisi sulle pareti di una stanza buia dalla madre. 

Quest’ultima vive solo in funzione  dell’annunciata morte del figlio. Veste già di nero, diventa iperprotettiva e proibisce al figlio di svolgere la vita di un normale bambino. I compagni della scuola coranica lo prendono in giro, chiamandolo “figlio della Morte”. Il padre che ha già assistito impotente alla morte del fratello, annegato nel fiume, non ce la fa ad affrontare il pesante stillicidio dei giorni: decide così di partire lontano da moglie e figlio, con la scusa di dover cercare un lavoro più remunerativo.

Ma la cosa positiva è che, rispetto al villaggio globale, in quello sudanese, non tutti credono nella profezia dello sheikh. Squarci di pensiero non fatalista, lontano dalle superstizioni, fanno capolino qua e là.  C’è la vitalità prorompente di Na‘ima, innamorata follemente di Muzammil, pronta a sposarlo e a sognare con lui una famiglia, una casa, dei figli. Persino un’anziana donna, Nafisa, cerca di convincere la madre del ragazzo dell’assurdità di tale profezia. Ma invano, da quel vortice non si esce. Muzammil decide di impostare quel che gli rimane della sua vita solo intorno al lavoro e alla scuola coranica: impara a memoria il testo sacro, cioè diventa hafez. Non reagisce neanche alle attenzioni di Na‘ima, perché sa che sposarla  significherebbe portarsi  nella tomba  la responsabilità di doverla lasciare subito vedova.

Poco lontano dal villaggio, immersa nella quiete della boscaglia, c’è la casa di Suleiman, un regista, reietto dalla società, dedito all’alcool, ormai nostalgicamente attaccato ai ricordi di un mondo che fu. A poco a poco introduce Muzammil, che vuole arrivare casto e puro al termine dei suoi giorni, nel suo mondo fatto di foto di attrici cult del cinema egiziano e mondiale, pellicole (un omaggio di Abu’l-‘Ala’ a Chahine e a Jadallah Jabbara, il padre del cinema sudanese, da me ahimè negletto). Il giovane, di fronte alle seducenti  immagini proiettate dalla macchina da presa di Suleiman, riesce finalmente a disegnare sulle sue labbra contrite qualche timido sorriso. 

Tra le due illusioni, quella determinata dalla profezia funesta, e l’altra salutare, o almeno innocua, del grande schermo, si innesta una riflessione chiave: che cos’è la realtà? Un film in differita con un finale già scritto (maktub, destino) o un altro ancora in corso di svolgimento, in cui regista e attore si fondono in una sola persona?

Nella casa di Suleiman il giovane, hafez, fa la conoscenza di un nuovo Hafez,  ‘Abdelhalim, il mitico cantore della passione  negli anni d’oro del cinema egiziano,  melodie struggenti e irripetibili. Si impregna poi delle colonne sonore della rivoluzione sudanese (che fa poco audience nei media europei), cantata da Mohammed Wardi, mentre i suoi occhi famelici divorano i cimeli della variegata e appassionante vita di un uomo che lui non esita a considerare il suo vero padre. Sì, perché quello biologico che non ha mai conosciuto compare quando lui sta per compiere i suoi  fatidici vent’anni.

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Ad avviso di Suleiman quella sentenza di morte potrebbe rivelarsi un volano di una positiva rivoluzione: “Sai cosa farei io se mi dicessero che camperò fino a vent’anni?” : la ricetta di vita che propone al ragazzo non può non evocare una forte reazione ad anni di dittatura proibizionista e islamista di vari regimi (Numeiri, Turabi, Beshir) che hanno sconvolto la vita di generazioni di sudanesi. Il film è dichiaratamente dedicato alle vittime della negletta rivoluzione sudanese, eppure, a parte il brano summenzionato, non riesco a trovarvi riferimenti diretti. Autocensura? O forse un modo retorico per ingraziarsi le simpatie dei progressisti? Addirittura a qualcuno viene anche qualche sospetto: considerando che il film è una coproduzione europea, egiziana e sudanese, sta forse strizzando l’occhio ad un certo paternalismo, quasi auto orientalista, consapevole che i temi dell’oscurantismo religioso e culturale dei paesi arabi fanno presa  (e premi) nei festival occidentali? Come sarà stato accolto in Sudan, dal suo pubblico naturale e necessario?

Intanto, mentre Muzammil è in attesa che si compia il suo destino, senza sconti o dilazioni, e qualche spettatore occidentale si bea della presunta superiorità della sua civiltà razionalista rispetto ai retrogradi fatalisti africani, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, finanziata perlopiù dalle multinazionali del farmaco, continua a rilanciare le sue funeste profezie sulla “pandemia” in corso. Negli ultimi decenni lo ha fatto parecchie volte, grazie a conniventi mass-media. Sistematicamente, tali previsioni di orribili pandemie planetarie non si sono mai verificate (per fortuna nostra e sfortuna dei suoi sponsor). 

Ora, tornando al film, mi chiedo: sono più umane e perdonabili le superstizioni, condivise senza coercizione né alcuna campagna “informativa”, o le previsioni di uno presunto “scientismo” che non ne azzecca una e non accetta contraddittorio?

Per dimenticare gli ormai prevedibili presagi che rimbombano in tv, meglio continuare a godersi  le imprevedibili peripezie di Muzammil, sullo sfondo  di una Natura sudanese mozzafiato che ispira un’infinita armonia col creato. Nonostante tutto.

* Docente di lingua e letteratura araba all'università di Bari, Aldo Nicosia è autore de Il cinema arabo (Carocci,2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci,2014). Oltre ad articoli sulla settima arte, si è occupato di dialettologia, sociolinguistica e traduttologia nell'ambito del settore arabistico.

 

 

 
 

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