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SGUARDI RUSSI: IT’S NOT MY JOB (CUZAJA RABOTA) DI DENIS SABAEV

Categoria: 53a MOSTRA 2017
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SGUARDI RUSSI

Anche quest’anno il festival di Pesaro ha dedicato una sezione ai film russi; documentari, fiction e corti d’animazione che seguono due linee intrecciate: il rapporto tra Cinema&letteratura e gli sguardi oltre la Russia per accostarsi, conoscere e far conoscere l’Altro.
Due le periferie: l’Abkazia del film Sofichka di Kira Kovalenko, una rielaborazione di un romanzo di Fazil Iskander tradotto dal russo in abkazo, e il Tagikistan di Cuzaja Rabota di Denis Sabaev (strepitosa la sequenza iniziale all’ufficio immigrazione sulle eredità sovietiche e sull’ansia di “ricongiungersi” alla capitale Mosca, la diatriba sul “tipo caucasico” e l’alternanza dell’uso della lingua tagika e russa….un film da gustare rigorosamente in lingua originale!); due i film costruiti attorno alla parola: Collector di Alexei Krasovskiy con la splendida musica di Dmitry Selipanov a punteggiare un monologo strutturato in un climax ascendente di telefonate per riscuotere debiti, per svicolare dalla moglie destinata a diventare ex e per flirtare con una veterinaria sconosciuta e God Literatury di Olga Stolpovskaja un documentario sull’arte della/nella vita e la vita dell’/nell’arte che affronta i grandi quesiti della letteratura ottocentesca, in particolare la dicotomia tradizione/modernità a partire da una casa abbattuta per far posto ad una autostrada. Il protagonista è il marito, lo scrittore Aleksandr Snegirev, vincitore del Booker's Prize russo nel 2015 e uno degli autori tradotti dalla curatrice della rassegna Giulia Marcucci in Falce senza martello un’antologia di racconti della generazione post-sovietica assalita da un senso di nostalgia per qualcosa che hanno vissuto appena e non appieno.
Sono stati anche proiettati due deliziosi cortometraggi d’animazione di Dina Velikovskaya, realizzati con oggetti e pupazzi in carta velina: Il mio strano nonno, storia di un vecchio inventore e della nipote che vivono in riva a un mare fatto con pezzi di pellicola trasparente e Il cuculo mix autobiografico tra nostalgia e senso di colpa dedicato al figlio lontano.
Molti di questi sono il risultato di tesi e saggi di diploma: Il mio strano nonno, Sofichka nato da un’intuizione di Aleksandr Sokurov con cui Kira Kovalenko ha studiato per un cinque anni e Cuzaja Rabota, saggio finale di Denis Sabaev formatosi alla scuola di documentario di Marina Razbezkina.

IT’S NOT MY JOB (CUZAJA RABOTA) DI DENIS SABAEV

Nel più assoluto e rigoroso minimalismo, senza colonna sonora né alcun commento extra-diegetico che riflette l'impronta della scuola di Marina Razbezhkina, entriamo nella vita di Faruk Gafurov che lascia moglie e figlio a Dushanbe per cercar fortuna in una periferia depressa di Mosca, spazio desolato ed ancora inconsistente (splendida la fotografia che esalta i grigi lividi delle discariche e la pioggia sulla lamiera della roulotte).
discarica
Lì ci vivono già il padre iper-tradizionalista, i fratelli minori (un adolescente disilluso e rabbioso a cui interessa solo il calcio ed un ragazzino immerso nei videogiochi che rivendica il diritto di inciampare da solo) e la madre, che per quasi tutto il documentario si limita a lavare, cucinare e tenere la strada sgombra dalla neve finchè non si mobilita per salvare un vecchio pianoforte che i figli vorrebbero sacrificare nello scontro tra soldi e arte .
La telecamera segue per oltre sei mesi Faruk che per racimolare qualche rublo si mette a riciclare metallo mentre insegue il sogno di diventare un attore famoso in equilibrio instabile fra i genitori tradizionalisti e la volontà di integrarsi in un mondo cambiato dove nessuno lo aspetta né rispetta.
L’insolita combinazione di migrante/aspirante attore/musulmano permette al documentario di rifuggere dall’esotismo culturale sociologizzante sui migranti e di farci scoprire l’Islam del centro-Asia e la sensazione di sentirsi minoranza in un tessuto post-sovietico (ancora?) ateo: su tutte la scena in cui mentre sgozzano un montone per la festa di Eid Qurbani (da sottolineare l’uso del termine turco-iraniano invece dell’arabo Eid al Adha) vengono apostrofati dai vicini come “assassini” e “primitivi”. Un isolamento a cui rispondono compattandosi nelle preghiere di massa e nella sorpresa di riconoscersi e ritrovarsi tra musulmani


treno
Inoltre c’è un continuo rincorrersi di schermi auto-riflessivi: iPhones e telefonini su cui immortalano feste di matrimonio, videogiochi moderni e vintage recuperati dai rottami, proiettore da cui emergono foto in bianco e nero dell’infanzia nell’Urss che vengono commentate in un’alternanza tagiko/russo. Alternanza difficile da rendere nei sottotitoli ma assolutamente fondamentale nel mosaico sgretolato dell’ex impero sovietico che si percepisce anche nei casting quando Faruk viene scartato perché si cerca un “tipo ukraino”.

E alla fine torna nel posto a cui sente di appartenere: Dushanbe e la moglie a cui chiede subito di fare un altro figlio, un riflusso nel personale che chiude il cerchio rispetto alla folgorante sequenza iniziale: una serie di interviste presso l'ufficio del servizio federale di migrazione in Tagikistan per concedere o rifiutare il visto per la Russia. Una serie di primissimi piani sui più disparati motivi per migrare che arrivano tutti alla stessa conclusione: l’URSS è stata un ambiente linguistico e culturale comune e lo è ancora per tutti quelli che oggi si sentono spaesati.

Traduzione simultanea dal russo a cura di Giulia Marcucci 

 
 

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