E’ il passato di mio padre, non il mio:
mi commuove entrare nelle scene del suo passato
ma io non ho messo alcun passato nel mio futuro
You Yiyi
Il titolo ha un doppio significato: nel senso di “primo sparo” fa riferimento al 10 ottobre del 1911, la sollevazione di contadini conosciuta come “Rivolta di Wuchang” che ha provocato la caduta della dinastia Qing e la nascita della Repubblica cinese. Data con un doppio dieci che ha ispirato la locandina del film
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Ma First shot è anche “la prima inquadratura” e l’inquadratura iniziale, con statue fotografate e pixelate, volti plastificati del passato sottoposti a raffiche di vento, pioggia e grandine trasfigurati con un’aurea pop e a sorpresa un’Internazionale cantata a squarciagola ma in solitudine su un taxi che attraversa la città, è ricordata anche nella motivazione del premio.
“All’improvviso una tempesta spazza via il sangue di Tiananmen. La metafora è tanto grande che diventa metonimia e la metonimia è il cinema. Una cosa “e” l’altra. La “e” è fondamentale. La “e” è il cinema. Non c’è commento né finzione.”
Questa è la motivazione della giuria presieduta dal cineasta portoghese João Botelho e composta dall’attrice Valentina Carnelutti e dal regista Mario Brenta per il Premio Lino Micciché a The First Shot, l’ultimo lavoro della coppia Yan Cheng e Federico Francioni che già l’anno scorso avevano presentato nella sezione Satellite, un corto La tomba del tuffatore, che poi ha vinto la Menzione Speciale al Festival di Bellaria.
The First Shot nasce da un’intuizione di Yan Cheng, che dopo un viaggio in Cina si rende conto dello spaesamento dei suoi coetanei, ragazzi nati dopo il 1989, generazione senza più memoria di sé, appesa ad un passato contraddittorio di rivoluzioni tra enormi grattacieli, non luoghi, campagne incolte e rovine della Grande Muraglia: gentrification e modernizzazione che la rendono un cantiere-laboratorio disumanizzato e disumanizzante. Uno spaesamento che non è imputabile solo alla Cina (pure molto criticata seppur abbia un forte dinamismo interno, a volte non così percepito all’estero) ma uno spaesamento globale, comune ad una gioventù che vive in un mondo sempre più precario, in un ambiente sempre più inquinato e sempre meno spirituale.
Nell’affrontare il loro stare nel presente, attraverso il loro sguardo ci si mette in ascolto e si parte in un viaggio che è una ricerca cinematografica, un documentario narrativo con attori che interpretano sé stessi senza recitare e senza alcuna messa in scena. Una delle particolarità di questo lavoro è proprio la scelta fatta dai registi di non “dirigere” gli attori ma di costruire il film sulla vicinanza alle persone, su una intimità che nasce dalla relazione, esaltata da un lavoro in coppia senza ruoli fissi o preordinati.
Tre giovani, senza radici e senza ali autentiche: Peng Haitao blogger sottoposto a censura, Liu Yixing che non accetta i cambiamenti e la loro inarrestabilità di cui non capisce la logica (tra l’altro il villaggio che si vede nel film è demolito già da un anno…) e You Yiyi che se ne è andata a studiare in Europa e che quando torna non riesce più a capire né se stessa né nessun altro. Un unico stream of consciousness, flusso di coscienza che parla attraverso frame curatissimi (i continui riflessi su vetri e pozzanghere quasi sempre ripresi dagli I-phone, nuovissima possibilità espressiva perfettamente inserita nel tessuto linguistico-narrativo…e modo per bypassare le difficoltà di girare in esterni) per tre storie che non si incrociano mai, dove la “resistenza” non assurge a livello politico e collettivo ma ognuno sceglie individualmente la sua via.