Andate a vederlo al cinema, finché è possibile. Comprate il DVD. Proponetelo ad amici e parenti, soprattutto ai ragazzi; regalatelo a Natale e ai compleanni; portateci gli studenti, se siete insegnanti. E poi organizzatene pubbliche proiezioni ovunque possibile: tra amici, nei circoli ARCI e ACLI, negli oratori e nelle bocciofile, nei “meet-up” dei 5 Stelle (sostenendo che è un video postumo di Casaleggio) e perfino nelle sedi del PD (se riuscite a neutralizzare i renziani, dopo averli posizionati davanti alla Playstation…). Fate quello che volete, ma fatelo girare!
Sto parlando de Il giovane Karl Marx (Le jeune Karl Marx, Fra/Ger/Bel, col., 118', 2017), opera del regista haitiano Raoul Peck, che è anche un film biografico sui fondatori del materialismo storico negli anni del loro apprendistato teorico, politico e sociale, tra il 1843 e 1848, ma soprattutto un saggio (filmico) sulla forza che le idee possono avere nella storia, quando riescono a unirsi alle forze materiali (e quando lo fanno, poi, producono risultati inevitabilmente spuri e contraddittori, ma nient’affatto inutili, come ci vorrebbero convincere gli attuali predicatori della rinuncia)1.
Trailer internazionale del film
Il film, certo, è in primo luogo un’accurata e informata ricostruzione degli anni della formazione del giovane Marx e del suo sodale Engels (figura a cui viene tributato com’è giusto molta attenzione, e riconosciuti i meriti che gli competono – tra l’altro di avere spinto l’amico a studiare l’economia politica)2. Ci permette infatti di seguire il percorso parallelo e poi convergente dei due giovani intellettuali democratici tedeschi di metà Ottocento nel loro sempre più “pericoloso” avvicinamento alla questione sociale. Un pericoloso avvicinamento che avviene per i due amici – anche questo mostra il film – non solo “nel pensiero” ma anche nella vita reale, ciascuno a modo suo: Marx, perché da subito fa, mano nella mano dell’amata Jenny, un drastico “salto di classe” verso una vita segnata dalla precarietà economica quando non dalla miseria; Engels perché, posto dal destino sociale nel cuore stesso della macchina sfruttatrice della borghesia industriale, sceglie di immergersi nel “ventre di Manchester” di cui impara presto a percorrere le vie non certo troppo “raccomandabili”. Entrambi, naturalmente, nei guai con le polizie di mezza Europa, che li braccano e li perseguitano.
E valgano qui, due momenti notevoli nel film: la straordinaria sequenza d’apertura che cita – in senso filmico e dunque metaforico, ma anche in senso letterale – gli articoli che il giovanissimo Marx aveva dedicato alla legge discussa nella Dieta prussiana per reprimere la pratica dei «furti di legna» da parte delle masse indigenti (si trattava in realtà della consuetudinaria raccolta della legna secca)3, e la vivace descrizione dell’impegno di Engels, “costretto” nella fabbrica di filati paterna “Ermen & Engels” di Manchester, nella realizzazione di quel capolavoro di “osservazione partecipante” (come direbbe un sociologo odierno) che è la Condizione della classe operaia in Inghilterra4.
Il film di Peck ci aiuta a capire come il crescente coinvolgimento nelle questioni sociali contribuisca in misura determinante alla rottura con la loro precedente coscienza filosofica e politica, quell’hegelismo di sinistra per il quale la battaglia per l’emancipazione dell’uomo si combatteva nel cielo delle controversie teologiche, mentre i due amici sono troppo coinvolti col mondo “là fuori”.
Ci mostra come i due percorsi, socialmente e geograficamente eterogenei, s’incontrino in quella amicizia politico-teorica destinata a consolidarsi per sempre, nella reciproca dedizione ma soprattutto in quella di entrambi alla causa del socialismo.
Emergono, infine, le polemiche e gli scontri che i due filosofi tedeschi impegnano nelle organizzazioni del movimento operaio di quegli anni al fine di affermare una concezione pienamente moderna del socialismo («scientifica» essi ritenevano), scontrandosi con i tanti leader del tempo (vediamo Proudhon, Bakunin, Weitling…), e con quegli stessi operai rivoluzionari che essi pure ammiravano enormemente e a cui tuttavia non risparmiavano le critiche, quando necessarie (e anche la capacità di Marx di tenere insieme dedizione a un movimento e inflessibile spirito critico è ben evidenziata nel film). Particolare attenzione, a questo proposito, è attribuita al confronto con Wilhelm Weitling, per strappargli l’egemonia su quella Lega dei Giusti che organizzava numerosi operai e artigiani tedeschi esuli, e a cui Marx ed Engels si avvicinano nel 1847. Sarto autodidatta, Weitling (1808-1871) era l’espressione tipica di quel socialismo utopistico e sentimentale, a sfondo semi-religioso, che aveva molto successo tra gli operai coscienti del tempo, anche per la semplicità delle parole d’ordine e per il pathos ad esse connesso. Far capire a quegli operai induriti dal lavoro e dalla fatica che non di prediche edificanti ad opera di moderni “profeti” avessero bisogno le loro lotte per l’emancipazione, ma di lucida comprensione della dinamica strutturale della società, per meglio poterla rovesciare, e insieme di opera sistematica di divulgazione delle conoscenze tra le masse, non fu facile ma i due inseparabili amici ci riuscirono, in quella prima vittoriosa battaglia tra gli operai tedeschi. Battaglia che culminò con la realizzazione del Manifesto per conto della Lega (nel frattempo rinominatasi “dei comunisti”) e con la quale si conclude il film.
Eppure, il lato storico e biografico, realizzato con scrupolosa aderenza alle fonti e con una leggerezza compositiva che impedisce allo spettatore non dico la noia ma anche solo la distrazione, non esaurisce il valore di questo film, che vuole chiaramente mettere in comunicazione le vicende dell’epoca con il mondo che è venuto dopo, con il mondo di oggi, come sottolinea la sequenza finale che scorre sulle note di Bob Dylan. Ricordandoci che ancora di noi parla questa storia, di quello che siamo stati in questi ultimi centosettanta anni, di quello che potremmo essere domani, o dopodomani.
Nel narrare le vicende di due giovani intellettuali intenzionati a rivoltare l’Europa di metà Ottocento, dove ai cascami delle monarchie «restaurate» si accompagnavano i primi rapidi passi dell’industria e della proletarizzazione dei popoli europei, il regista sembra invitarci – e credo in particolare la gioventù – a pensare che quel “miracolo” sia ancora possibile. Se è successo una volta, potrebbe succedere ancora – voglio dire – che una passione durevole per la distruzione del mondo ingiusto si unisca ad una scienza ad essa adeguata. Per questo servirà il coraggio di pensieri nuovi e inediti, ma anche una capacità di ereditare criticamente quell’enorme patrimonio teorico di cui Il giovane Karl Marx ci dà solo, com’è proprio di un’opera cinematografica, l’accenno e per così dire la nostalgia.
TONI MUZZIOLI
Note
1 Mi riferisco, come si capirà, alla tendenza attuale a trattare il ciclo rivoluzionario aperto dall’Ottobre 1917 come un’unica sequela di orrori totalitari, e lo stesso Novecento nel suo complesso come il secolo della violenza e dell’odio ideologico, così da deprimere nelle giovani generazioni la speranza e l’impegno per la trasformazione della realtà vigente (sicché non deve stupire poi che questa sia – per usare il titolo di un fortunato libro di alcuni anni fa – l’epoca delle passioni tristi).
2 Ci si riferisce qui ai Lineamenti di una critica dell’economia politica (1844) che Marx ancora nel 1859, nella prefazione a Per la critica dell’economia politica, definisce «geniale schizzo di critica delle categorie economiche» (Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, introduzione di Maurice Dobb, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 6). Quella «critica dell’economia politica» che, a partire dal 1850 e poi con sempre maggiore intensità, diventerà il centro del lavoro intellettuale di Marx ha insomma in Engels il suo primo “suggeritore”.
3 Si tratta di una serie di articoli scritti tra ottobre e novembre 1842 per la “Reinische Zeitung”: Karl Marx, Le discussioni alla sesta dieta renana. Secondo un renano, in Karl Marx - Friedrich Engels, Opere complete, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 222-264. Ha scritto Ernest Mandel che, grazie a quel lavoro giornalistico, il giovane liberale Marx comprende che «lo Stato, che dovrebbe essere l’incarnazione dell’“interesse generale”, sembra agire nell’esclusivo interesse della proprietà privata, e a tal fine viola non solo la logica del diritto, ma anche degli evidenti principi d’umanità». E anche «che la proprietà privata (…) è il risultato di una appropriazione privata, monopolizzatrice, di un bene comune» (Ernest Mandel, La formazione del pensiero economico di Karl Marx. Dal 1843 alla redazione del Capitale. Studio genetico, Bari, Laterza, 1973, p. 11). Una acquisizione che Marx non dimenticherà più e che si ritroverà nel celebre ventiquattresimo capitolo del Capitale dedicato alla «accumulazione originaria», ovvero al «punto di partenza del modo di produzione capitalistico» (cfr. Karl Marx, Il capitale, libro primo, a cura di Delio Cantimori, Roma, Riuniti, 1974, p. 777-826).
4 Rivolto agli operai inglesi, cui il libro è dedicato, scrive Engels tra l’altro: «volevo qualcosa di più della semplice conoscenza astratta del mio soggetto, volevo vedervi nelle vostre stesse case, osservarvi nella vostra vita di tutti i giorni, discorrere con voi sul vostro stato e sui vostri tormenti, essere testimone delle vostre lotte contro il potere sociale e politico dei vostri oppressori» (Friedrich Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra. In base a osservazioni dirette e fonti autentiche (1845), introduzione di Eric J. Hobsbawm, traduzione di Raniero Panzieri, 4. ed., Roma, Editori Riuniti, 1992, p. 21).