A Bengasi sarei morto, e anche in mare.
Ho scelto il mare:
siamo esseri umani
e volevo essere rispettato, non sfruttato
Prima si andava in Libia
a cercare una vita migliore,
ora bisogna scappare da lì
per poter restare vivo
Il film stila una mappa geografica, politica ed emotiva di migranti che fanno rotta verso la Sardegna, tutti in partenza da una Libia in cui persino i bambini hanno un’arma ed il trafficante di esseri umani è diventato il motore dell’economia.
Interviste video, una splendida fotografia in un bianconero esasperato, inquadrature dall’alto e luci notturne che ammorbidiscono il paesaggio sono i tratti distintivi che fanno da sfondo ad una etnografia visuale combinata con la tecnica dell’autonarrazione, in un progetto-processo di creazione del film attraverso una molteplicità di sguardi e lingue. Non esiste dunque un confine netto e prestabilito tra osservato ed osservatore e in effetti molte scene (come quelle all’interno del centro) sono state girate dagli stessi protagonisti in una immersione fusionale con l’ambiente all’interno di Video Partecipativo Sardegna (ww.videopartecipativosardegna.net), una ricerca documentaria sui linguaggi del cinema del reale (in collaborazione con l'Archivio Memorie Migranti e Zalab) dove lo strumento del video partecipativo viene applicato al tema delle migrazioni forzate. Del resto il video, sin dagli anni Settanta, è stato considerato l’arma ideale per una presa di coscienza militante al servizio della prassi vertoviana di cogliere e raccogliere i fatti (quello che Zavattini definiva “cinema dell’accadendo e non dell’accaduto”) come base di scambio di esperienze politiche che sono arrivate addirittura al cosiddetto “agit film”, cioè un film che interviene direttamente sul reale: tra i tanti, Apollon: una fabbrica occupata di Ugo Gregoretti che documenta la battaglia dei lavoratori della tipografia romana e ne innesca altre.
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In questo caso la videocamera costituisce il filtro tra il reale e la memoria di chi, sulla stessa barca e nello stesso mare da cui è partito, cerca di (ri)costruire i propri sogni in una biopolitica affermativa che attraverso le lotte difende e riafferma tutte le forme di vita producendo (anche) nuovi immaginari in una fulminante sintesi finale: “la morte non impedirà alla gente di migrare”.
Molto interessante è anche il sound design che mischia i suoni della natura sarda (vento, mare, foglie e tenda nel bosco, addirittura i piedi strascicati sulla sabbia) con le preghiere salmodiate, le suonerie dei cellulari (usati anche per mostrate spezzoni autentici di video fatti prima e durante il viaggio) e musiche tradizionali su un susseguirsi di reti, sbarre, grate, reticoli, cancelli e panni stesi che nell’ultima inquadratura lasciano il posto ad un aquilone.
Un documentario attuale e imprescindibile che supera le contabilità dei tentativi alle frontiere di chi cerca la vita e si trova a dipendere dagli altri e dall’incertezza del tempo, un documentario dedicato “a tutte le persone che attraversano le frontiere, a chi non è mai arrivato e a chi è tornato indietro”.
Regia: Stefania Muresu (con Usman Aziz, Toni Khalifa, Sulayman Suwareh)
Produzione: Roda Film (con Associazione culturale 4CaniperStrada e Archivio delle Memorie Migranti)
Lingue: arabo, urdu, mandinke, inglese
Durata: 71'
Fotografia: Usman Aziz, Alessandro Fanari, Pavlo Hntenko, Stefania Muresu, Valentina Spanu, Fabian Volti
Montaggio: Alessandro Fanari, Stefania Muresu, Marco Testoni
Suono in presa diretta: Alessandro Fanari, Pavlo Hnatenko, Stefania Muresu, Valentina Spanu
Musiche: Marco Colonna
Post produzione audio: Carlo Doneddu
Post produzione video e color grading: Luigi Bosio
Assistente di produzione: Fabian Volti
Consulenza: Gabriel Tzeggai
Grafiche: Diego Ganga