Nov 21, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

AHMED EL ATTAR

Categoria: EGITTO
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Word and cinema in the cultural policies in Egypt (versione italiano vedi sotto)

Oppression is a culture, Democracy is a culture and people do not change their culture from day to day. One thing is to change the regime, another is to change that culture. Ahmed El Attar

No_bikiniI met Ahmad El-Attar, founder and general manager of the Studio el-Din (http://seefoundation.org/v2/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1LINK), a center for performing arts located in the "Sharia Broadway" -- the street traditionally dedicated to art and culture -- to speak about the cultural policies under the Mubarak regime and what could happen with the victory of the Muslim Brotherhood. In Egypt, the cinema is not only an industry in the economic sense, but also a cultural industry, thanks to the fact that the Egyptian dialect is understood throughout the Arab world. Ahmed El Attar immediately highlights the existence of two parallel and not communicating realities: on the one hand, the cultural scene in Cairo and Alexandria (which was the setting for many successful recent movies such as Microphone (Microphone, col., 122’, 2010, Egypt,), El Shooq (El shooq, col., 130’, 2010, Egypt) e Hawi (Hawi, col. 112’, 2010, Egypt) and on the other hand, the cultural desert represented by the rest of Egypt, a result of the complete lack of infrastructure. He then explained the mechanism of censorship under Mubarak: as for the theater, control was exerted through the creation of theater caravans, which were in effect functional propaganda machines for the state, without any artistic or cultural value, as demonstrated by the experience of the Festival of Experimental Theatre. As for the cinema, the mechanism of censorship was more complex, a fact highlighted by the differentAhmed_el_attarimp treatment received by two movies both dealing with the issue of abuses and corruption in the police: Hyya Fauda (Le Chaos, col., 122’, 2008, Egypt) by Yusef Chahine, and Hawi by El Batout. El Attar explains this difference in treatment in a way that is tautological: the Mubarak regime was in fact a regime and thus was "strong with the weak and weak with the strong". Although unpopular with the regime due to movies such as Al-nas wa al-Nil in 1968 (Un jour, le Nil, col., 1968, Egypt/URSS/France, playing time depending on the version) (on the construction of the Aswan Dam), Al-Usfur (Le Moineau, col., 105’, 1972, Egypt/Algeria) (on the responsibilities and mistakes in the of the Six Day War) and Al-Mujrih (L’emigrè, col.,129’, 1994, Egypt/France)  (which sparked a religious dispute with the University of El-Azhar), Chahine was first and foremost a director with an international stand. So despite his intentions, Chahine was co-opted by the regime and heralded as "evidence of a democratic Egypt" (for those who believed or pretended to believe it). The case of El Batout was the opposite: despite receiving some awards abroad (first as a documentarian and then with Hawi), El Batout was weak enough to be overcome but, more importantly, did not use a script. The written word is a boundary and is controllable: it was not so much the theme of the film, but the behavior of El Batout that had to be punished. Therefore, the script assumed under the Mubarak regime the role of a “border" that should not be crossed,  and comes to represent the ultimate example of a "closed screenplay" as defined in the "Cahier du Cinema" (1985), where everything is predetermined, and nothing is left to the creativity and to the vagaries of the director. There was then a further control over the final product, i.e. on the footage, to check if the single shots and scenes were in fact consistent with the script. The regime attempted to apply this method of control even to the Internet (in line with Gamal Mubarak’s famous definition of Internet users as "amoebas blocked in front of their screen that would not come out of the rooms they were holed up in"), without understanding McLuhan’s lesson that "the medium is the message" and that the sense of protection given by anonymity allowed people to overcome fear, both the physical fear and the fear of being alone and different (e.g. Ghada Abdel Aal's blog that busts the "myth" of marriage as the only possible source of female achievement). Speaking of the Muslim Brotherhood, El Attar points out another unique feature that the cinema and more generally entertainment have in Egypt today: that of a social "safety valve", especially for young people, many of whom are unemployed. So, chuckles El Attar, "I just want to see how they will manage to put a veil on actresses and singers." The Muslim Brotherhood and the former regime are politically the same thing, i.e.  politically conservative but with a more liberal approach on the economic side: they know that part of the revenue comes from tourism, so for all their statements, they can not ban alcohol or bikinis. But glancing at the cartoons you see around, not all share this view .... By Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Part 1 (English language with Italian subtitles)

Part 2 (English language with Italian subtitles)

Parola e cinema nelle politiche culturali in Egitto

L’oppressione e’ una cultura, la democrazia e’ una cultura e le persone non cambiano la propria cultura da un giorno all’altro. Una cosa è cambiare il regime, un’altra  è cambiare quella cultura. Ahmed El Attar

No_bikiniHo incontrato Ahmad El-Attar, fondatore e general manager dello Studio el-Din (http://seefoundation.org/v2/index.php?option=com_frontpage&Itemid=1LINK), un centro di performing arts situato nella “Sharia Broadway”, la via che storicamente era dedicata all’arte e alla cultura, per parlare delle politiche culturali sotto Mubarak e di cosa potrebbe succedere con la vittoria dei Fratelli Musulmani. In Egitto il cinema non solo è un’industria ma è anche un’industria culturale, grazie anche al fatto che il dialetto egiziano è compreso in tutto il resto del mondo arabo. Ahmed El Attar sottolinea subito l’esistenza di due realtà parallele e non comunicanti: da un lato lo scenario culturale del Cairo e di Alessandria (in cui sono stati ambientati molti film recenti di successo tra cui Microphone (Microphone, col., 122’, 2010, Egitto,), El Shooq (El shooq, col., 130’, 2010, Egitto) e Hawi (Hawi, col. 112’, 2010, Egitto) e dall’altro il deserto culturale, specchio dell’assenza totale di infrastrutture, del resto dell’Egitto.  Ci ha poi spiegato il meccanismo della censura sotto Mubarak: per quanto riguarda il teatro la creazione di carrozzoni, macchine di propaganda funzionali per lo Stato, senza alcuno spessore nè artistico nè culturale, come dimostra l’esperienza del Festival del Teatro Sperimentale. Per quanto riguarda il cinema, il meccanismo della censura era più complesso ed articolato come dimostra il diverso trattamento riservato al film Hyya Fauda (Le Chaos, col.,122’, 2008, Egitto) di Yusef Chahine e Hawi di El Batout pur trattando la stessa tematica, cioè i soprusi e la corruzione della polizia. El Attar spiega questa differenza in maniera tautologica cioèAhmed_el_attarimp dicendo che il regime di Mubarak era per l’appunto un regime e quindi era “forte coi deboli e debole con i forti” e Chahine era sì un regista inviso al regime,  a causa di film come Al-nas wa al-Nil (Un jour, le Nil, col., 1968, Egitto/URSS/Francia, minutaggio diverso a seconda della versione) sulla costruzione della diga di Aswan, Al-Usfur (Le Moineau, col., 105’, 1972, Egitto/Algeria) sulle responsabilità e gli errori della Guerra dei Sei giorni e Al-Mujrih (L’emigrè, col.,129’, 1994, Egitto/Francia) che ha scatenato una controversia religiosa con l’università di El-Azhar, ma era soprattutto un regista conosciuto internazionalmente. Quindi suo malgrado, Chahine è stato cooptato dal regime e sbandierato come “prova della democraticità” dell’Egitto di Mubarak (per chi ci ha creduto o ha fatto finta di crederci). Opposto il caso di El Batout che nonostante alcuni premi all’estero (prima come documentarista e poi con Hawi) era abbastanza debole da poter essere sopraffatto ma soprattutto non usava la sceneggiatura. La parola scritta costituisce infatti un limite ed è controllabile: non è stato tanto il tema del film ma il comportamento di El Batout a dover essere punito. La sceneggiatura assume dunque sotto il regime di Mubarak il ruolo di “confine” da non oltrepassare e si configura quindi l’esempio estremo di  “sceneggiatura chiusa” secondo la definizione del “Cahier du cinema” del 1985 dove tutto è predeterminato e niente viene lasciato all’estro del regista e all’alea. Vi era poi un ulteriore controllo sul prodotto finale, cioè sul il girato del film per controllare se le singole inquadrature e scene corrispondessero effettivamente alla sceneggiatura. Il regime ha tentato di applicare questo metodo di controllo anche a Internet (celebre la definizione di Gamal Mubarak degli internauti come di “amebe bloccate davanti al loro schermo che non sarebbero usciti dalle stanze in cui erano rintanati”), senza capire la lezione di McLuhan che “il medium è il messaggio” e che il senso di protezione dato dall’anonimato ha permesso il superamento della paura, sia la paura fisica sia la paura di sentirsi soli e diversi (ad esempio, il blog di Ghada Abdel Aal che infrange il “mito” del matrimonio unica fonte possibile di realizzazione femminile). Parlando poi dei Fratelli Mussulmani El Attar sottolinea poi un’altra peculiare funzione che ha il cinema e più in generale l’intrattenimento oggi in Egitto: quella di “valvola di sfogo” sociale soprattutto per i giovani, moltissimi dei quali sono disoccupati, per cui ridacchia El Attar “voglio proprio vedere come metteranno il velo ad attrici e cantanti!”. E i Fratelli Musulmani e il vecchio regime sono politicamente la stessa cosa cioè hanno una politica di stampo conservatore ma sono liberisti: sanno che una parte delle entrate proviene dal turismo per cui al di là di dichiarazioni di facciata, non potranno proibire l’alcol o i bikini. Ma a guardare le vignette che circolano non tutti condividono questa opinione…. di Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

CHI È AHMED EL ATTAR

Ahmed El Attar si è laureato in Teatro all'Università Americana del Cairo focalizzandosi sulla tematica del linguaggio (“ho sempre avuto un approccio molto scettico al linguaggio… sono cresciuto in una prostituzione completa del linguaggio, in un discorso politico e sociale completamente in contrasto con quello che noi tutti stavamo vivendo. Ci hanno detto l'Egitto era un bellissimo posto e sicuro dove vivere, ma appena ci siamo affacciati fuori ci siamo trovati accerchiati dall'ingiustizia sociale e politica”) diventando ben presto un punto di riferimento della scena indipendente dei primi anni 1990, caratterizzati in Egitto da un calo di popolarità del teatro pubblico. Il suo primo dirompente lavoro  “Oedipus the President”, rompe con la narrazione lineare e riscrive il mito tramite riferimenti politici contemporanei, mischiando tre lingue e innovando il design del teatro con il palco dietro al pubblico. Dopo questo spettacolo, el Attar diventa il capo del Fondo di sviluppo della Cultura e scrive “The Committee”, una feroce critica sull’esercito egiziano che gli procura gli strali della censura di stato ed una programmazione in Oman. A questo punto si trasferisce a Parigi per un Master in Management Culturale alla Sorbona, dove compone Life is Beautiful or Waiting for My Uncle From America (2000) un pezzo di teatro dell'assurdo basato su un uso massiccio dell’iterazione, con parole inventate ed una  struttura grammaticale in piena libertà; acclamato in Egitto, Germania, Oman e Libano. A questo sono seguiti Mother I want to be a Millionaire (2004) Othello, or Who’s Afraid of William Shakespeare (2006) e Fuck Darwin, or How I’ve Learned to Love Socialism (2007) con cui vince il premio come miglior attore al Festival di Teatro Sperimentale del Cairo. Nel 2009 El Attar inizia a scrivere il suo lavoro più famoso  On the Importance of Being an Arab presentato in anteprima alla Biennale di Sharjah: una performance di 40 minuti in cui el-Attar seduto su una sedia su un mattone di cemento mischia conversazioni telefoniche sul discorso di Barack Obama ai preparativi per il suo matrimonio, mentre alle sue spalle in una proiezione-video scorrono lettere d'amore, manoscritti incompiuti, e lettere ai suoi genitori, senza alcuna correlazione tra i movimenti del corpo e le parole. Grazie a questi lavori El Attar viene definito dall’edizione araba del Newsweek come una delle personalità che hanno maggiormente influenzato il cambiamento nel mondo arabo ed è attualmente membro di diversi consigli internazionali e comitati consultivi tra FEMEC - Forum Euroméditerranéen des Cultures; è il generale manager di Emad el din Foudation e tra gli organizzatori del DCAF (Downtown Contemporary Arts Festival) festival multidisciplinare dedicato alle arti contemporanee che ha lo scopo esplicito di riportare l’Egitto sulla scena culturale globale, in questi giorni di scena al Cairo


 
 

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