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MATEI COPIL MINER: UN PICCOLO GRANDE FILM RUMENO

12. PNC MATEI CHILD MINER di Alexandra Gulea sito

MATEI COPIL MINER: UN PICCOLO GRANDE FILM RUMENO.

La 49a mostra del Nuovo cinema di Pesaro ha premiato, nel giugno del 2013, Matei copil miner (Matei bambino minatore, Rom-Fra-Ger, col., 80', 2013) scritto, montato e diretto da Alexandra Gulea, all'esordio da regista in un film di finzione dopo diversi lavori come documentarista, con due riconoscimenti: premio della giuria giovane e premio Lino Miccichè. La nostra associazione Formacinema è riuscita ad entrare in contatto con i responsabili del Festival di Pesaro per ottenere la copia del film e inserirla all'interno della rassegna "Le vie del cinema: i film di Venezia e Locarno a Milano" che si svolge, in diverse sale cinematografiche, a Milano dal 16 al 24 settembre 2013. La proiezione del film avverrà il 23 settembre presso il cinema Apollo di Milano in due distinti orari: alle 15 e 30 e alle ore 20. Non vi è dubbio che per Milano è un'occasione unica per poter vedere un film premiato in una delle più importanti e raffinate manifestazioni cinematografiche d'Italia. È la prima volta, infatti, che accade un evento del genere perché mai, prima d'ora, il Festival è riuscito ad arrivare a Milano e questo è motivo di orgoglio per la nostra Associazione. La pellicola sarà presentata in lingua originale con sottotitoli in italiano.

Il film vincitore del Festival di Pesaro proviene da una delle realtà cinematografiche più emergenti d'Europa, la Romania. Già presentato con grande successo di critica e pubblico al Festival di Rotterdam 2013, il film narra la storia di un ragazzino di nome Matei, interpretato da un giovanissimo, talentuoso e quasi sempre muto Alexandru Czuli, che trascorre una vita piena di normalità ma all'interno di una realtà molto dura e incapace di premiare i suoi talenti. Sono soprattutto gli adulti, in primis i parenti più stretti, a condizionare la sua esistenza. La madre di Matei, espatriata in Italia, sembra insensibile alle richieste di affetto di Matei e risulterà, nel finale del film, addirittura angosciata dalla presenza del figlio. Il nonno, costretto a fare le veci dei genitori, è un personaggio che sembra essere l'unico vero adulto premuroso e attento alle esigenze del protagonista. Ma sarà proprio lui, a causa di una brutale punizione fisica, a spingere l'adolescente ad un'improvvisa quanto liberatoria fuga dal focolare domestico. Anche l'amico di Matei, Scarlat, tradirà il compagno e sarà la causa dell'espulsione da scuola. Insomma, il protagonista è un ragazzo solo e questa solitudine viene sottolineata dalla regista con degli intensi primi piani che esaltano il volto innocente e vispo del bravissimo Alexandru Czuli. La salvezza arriverà, invece, dalla grande passione di Matei per gli insetti, di cui conosce a memoria tutti i nomi scientifici (si veda la scena, molto intensa, della pulizia del cadavere del nonno), a riscattare un'esistenza triste e costellata di privazioni affettive. Saranno, inoltre, le competenze da entomologo a consentire al protagonista ad entrare in contattato con il guardiano del Museo di storia naturale di Bucarest, l'unico personaggio adulto positivo del film. Questo incontro, infatti, trasformerà il protagonista tanto da indurlo ad abbandonare, definitivamente, una madre sempre più insofferente verso di lui. Ma la vera bellezza del film è rappresentata dalla magistrale capacità della regista di riprendere ed inquadrare gli ambienti, sia naturali che urbani. Una maestria che, con molta probabilità, le deriva dall'esperienza come documentarista. La capacità di rendere espressivi addirittura le squallidissime mura della scuola in cui studia Matei, trasforma la pellicola, in molti momenti, in un grande reportage fotografico capace di coniugare bellezza estetica con riflessione sociologica. Un esempio molto evidente di questo tipo di indagine fotografica è presente nelle scene in cui viene descritto, visivamente, il villaggio dove vive Matei. La cittadina appare in rovina a causa di un evidente declino sociale ed economico dovuto alla cessazione delle attività di estrazione del carbone. La modalità di ripresa preferita dalla Gulea, in questi frammenti del racconto, è quella di utilizzare delle panoramiche dall'alto, in campo lungo, capaci di inserire i personaggi in un quadro che, pur desolante, emana un indubbio fascino visivo. La macchina da presa, inoltre, rimane sempre fissa e questo permette di rendere dinamico il quadro perché al suo interno ci sono personaggi (persone o animali o mecchine) che si muovono. In alcune scene della prima parte del film, ad esempio, vediamo un gruppo di cani randagi interagire con gli abitanti del villaggio in una strada imbiancata dalla neve ghiacciata. Il colore bianco dello sfondo, reso statico dall'inquadratura, quindi, viene messo in contrapposizione alle figure scure e dinamiche degli abitanti del villaggio che si muovono del tutto incuranti dei cani, liberi di vagare per le strade prive di traffico. Queste inquadrature, inoltre, vengono contrappuntate, spesso e volentieri, con i versi degli uccelli in volo o con i rumori della città o con una musica allegra di origine zingara.

Quasi tutto il primo tempo del film si svolge durante l'inverno e questa scelta di sceneggiatura svolge la funzione narrativa che diventa, inevitabilmente estetica, di accentuare l'aspetto squallido e triste di un paesino caduto letteralmente in rovina. Questo freddo e desolante contesto ambientale funge da perfetta metafora emotiva perché rende ancora più esplicito il bisogno inespresso del giovane protagonista di trovare il calore affettivo che gli manca. Tale ambizione retorica diventa concreta quando la regista ambienta il racconto all'interno delle mura scolastiche in cui il piccolo protagonista si muove ed esprime la sua personalità. In questo luogo gestito da adulti, infatti, nessuna delle figure deputate all'educazione (come la professoressa o il prete) sembra capace di promuovere comportamenti formativi attenti alle esigenze delle piccole personalità dei loro frequentatori. Una delle scene chiave del film, ad esempio, ci mostra Scarlat, il fidato amico di Matei, mentre viene 694361umiliato davanti alla classe perché non ricorda una poesia (vedi foto a fianco). Questa scena, inoltre, rappresenta la svolta narrativa del film perché porterà il protagonista a intraprendere delle scelte che cambieranno la sua vita. In una gelida sera, infatti, i giovani protagonisti decidono di imbrattare la macchina della professoressa di lettere con alcune scritte ingiuriose per vendicarsi dell'umiliazione subita. Sarà lo stesso Matei a scegliere le frasi più caustiche da dipingere sull'automobile: "terrorista comunista e fascista". La bravata, tuttavia, non passa inosservata. Un consiglio di istituto, organizzato all'esterno della scuola, vede i professori e un prete intenti a pronunciare un discorso tutto proteso non solo ad instillare nei ragazzi il senso di colpa ma anche nel rendere encomiabile la delazione o l'ammissione della responsabilità del gesto, a detta degli adulti-aguzzini, vergognoso. Sarà proprio Scarlat, preso da irrefrenabile senso di vergogna, a confessare di essere l'autore, insieme al capo-Matei, di quelle scritte ingiuriose. Il nonno, convocato dall'insegnante di rumeno, viene avvertito dell'episodio. Appena rientrato a casa, però, picchia violentemente il nipote che decide, a questo punto, di fuggire di casa. Una fuga che segnerà il protagonista e lo renderà consapevole di un disprezzo per quelle istituzioni degli adulti che non sono state capaci di comprendere il suo mondo. In questa scena possiamo notare un altro espediente estetico usato, molto frequentemente, dalla Gulea nel film: il ricorso al montaggio ellittico. Molti episodi del film, infatti, sono giocati sul salto temporale operato dal montaggio che la mente dello spettatore è costretto a colmare con l'immaginazione e la deduzione logica. Si pensi, come dicevo poco fa, alla punizione corporale subita da Matei ad opera del nonno. Lo spettatore, infatti, non assiste al dialogo tra l'insegnante e il nonno ma ne deduce i contenuti. In un altro frammento del film vediamo la stessa modalità di narrazione: il viaggio del protagonista, in treno, per raggiungere Bucarest. Per rendere interessante e originale il racconto, infatti, l'istanza narrante fa ascoltare allo spettatore l'altoparlante della stazione che elenca tutte le fermate di un treno per terminare proprio con Bucarest est. Quando lo spettatore, dopo lo stacco di montaggio, vede camminare Matei lungo una banchina di una stazione piena di persone è immediatamente in grado di dedurre che si trova proprio nella capitale rumena. Il film, ad ogni modo, è pieno di questi passaggi in cui, per evitare di eccedere nei dettagli, vengono eseguiti dei salti temporali per compensare questi vuoti narrativi. Ed è soprattutto nella seconda parte del film, dove Matei è solo e deve affrontare luoghi e situazioni nuovi, insoliti ed imprevedibili, che la regista opta per questa modalità di raccontare lo snodarsi della vicenda. Non si preoccupa, infatti, di dirci come il ragazzo si procura da mangiare o come riesce a superare le gelide notti invernali senza morire assiderato. Lo spettatore ha, in altre parole, il compito di inventare, in maniera verosimile, tutti questi dettagli. Questa raffinatezza estetico-narrativa sembra trovare conferma nella presenza tra gli autori del montaggio anche di Peter Przygodda, già collaboratore di Wim Wenders per Paris Texas (1984) e Il cielo sopra Berlino (1987). Ma è soprattutto il giovane protagonista del film, Alexandru Czuli, a donare al personaggio di Matei uno spessore e una intensità, soprattutto nei momenti in cui non recita verbalmente. A ciò si aggiungano i primi piani, quasi sempre del profilo sinistro (!), voluti dalla regista per esaltare maggiormente i pensieri e i sentimenti del personaggio.

Un film, dunque, che parla della condizione dell'adolescenza e con lo sguardo universale degli adolescenti, uguali in tutte le parti del mondo. Ma attraverso le lenti e la sensibilità di una donna documentarista.

MATEI CHILD MINER (Matei Copil Miner, Romania, Germania, Francia, col., 80', v.o. rumeno, sott. Italiano, 2013) di Alexandra Gulea. Con Alexandru Czuli, Remus Margineanu, Claudiu Ababei. Scritto da Alexandra Gulea. Fotografia: Reinhold Vorschneider. Montaggio: Alexandra Gulea, Peter Przygodda e Bruno Tracq. Premio Lino Miccichè 2013, premio della giuria giovane 2013 alla 49a Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro.

BABYLON

 Racconteremo una società che si autodistrugge.

 Babylon, è l'impossibilità di incontrare le persone

e non riguarda solo la Tunisia...

Che significato può avere il cinema se non inventa l'ignoto?”

Ala Eddine Slim,uno dei 3 registi

Babylon manifestoSCHEDA TECNICA


Registi
: ismaël, Youssef Chebbi, Ala Eddine Slim
Durata: 119 minuti, colore
Sonoro: Mono
Formato di ripresa: DVCAM

Formato: 16/9
Design, immagine, produzione del suono: ismaël Youssef Chebbi, Ala Eddine Slim
Editing delle immagini:
ismaël Ala Eddine Slim
Montaggio del suono e  mixaggio audio: Yazid Chebbi
Calibrazione immagine: Amri Fakhreddine
Direttore di produzione: Chawki Knis
Produzione: Chawki Knis Ali Hassouna, Ala Eddine Slim
Società di produzione: Exit Productions

Paese: Tunisia
Anno di produzione: 2012
Lingue: arabo, inglese, francese, dialetti africani….

senza sottotitoli: i registi hanno deliberatamente scelto di non utilizzarli per far vivere allo spettatore la stessa sensazione di straniamento che provano i migranti;  loro per primi hanno dichiarato di non aver  capito parola perparola tutto ciò che viene detto ma di essersi lasciati guidare dal ritmo e dalla musicalità delle voci.  

Premi vinti

Grand prix  al festival internazionale di Marsiglia (9 luglio 2012)

Prix des universités  al festival international di Lisbona doclisboa 2012

Primo premio nella sezione lungometraggi al 2ème Rencontre Annuelle des Réalisateurs de Films Tunisiens 2013

Babylon si configura sia come un esperimento sul linguaggio che come un esperimento di utilizzo del materiale: infatti durante le riprese, i tre registi hanno diffuso in tempo reale tramite Internet video, fotografie, clip audio, testi open source invitando chiunque volesse, a riutilizzarli per creare nuove opere.  


Sono state fatte mostre sui diversi lavori e anche un film-concerto di Zied Meddeb Hamrouni in cui ha mixato dal vivo la colonna sonora originale del film.Questo film non recitato può essere dunque considerato un “ipertesto” o come ha scritto Vertov un “film che produce film” nel senso che ogni inquadratura può essere utilizzata per altre ricostruzioni. Del resto, la comprensione dell’immagine dipende dalla correlazione con quelle che la precedono (secondo il cosiddetto “effetto Kulešov”) e questo flusso organizza le percezioni ed i processi interpretativi dello spettatore. Inoltre Babylon sarà proiettato nell'ambito della mostra “Le Pont” (http://www.mp2013.fr/evenements/2013/05/le-pont/) fino al 20 ottobre 2013 al Museo di Arte Contemporanea di Marsiglia (capitale europea della cultura 2013), un evento che ospita più di cento lavori di artisti provenienti da tutto il mondo (tra cui Marina Abramovich e Basquiat) sul concetto di migrazione e “deplacement”.

Babylon 1

Commenti sulla stampa internazionale

Hichem Fallah, coordinatore generale del Festival Internazionale del Documentario di Agadir:  “questo film è un oggetto non identificato né identificabile…sono stato stordito dalla sua forma poetica che offre una alternativa radicale al trattamento filmico delle rivoluzioni arabe”.

Hichem Ben Ammar, regista (un importante documentarista tunisino che ha appena presentato il suo ultimo lavoro al Festival di Cartagine con molto successo “J’en ai vu des étoiles” ): “il film esplora territori puramente cinematografici con una sperimentazione basata sul dubbio, sulla fragilità, sull'incompletezza; la sua forza viene dalla fiducia che ha nella capacità degli esseri umani di sopravvivere nel caos ed è un lavoro nel senso più pieno del termine che comporta una visione sul cinema e su un mondo costantemente minacciato.

The Hollywood Reporter: “il film è di notevole interesse per i suoi audaci aspetti estetici e filosofici e per la sua preziosa testimonianza di documento storico”.

Maghreb Magazine: “Babylon non è tunisino: è universale”.

Catherine Bizern, direttore Artistico del Festival Internazionale di Belfort: “Un film eccezionale”.
Tahar Chikhaoui, critico cinematografico e professore universitario: “Questo film è insieme una delizia ed una lezione di umiltà su un mondo creato e distrutto davanti ai nostri occhi, che non abbiamo avuto, o che non ci è stato dato, il tempo di vedere. Babylon ci aiuterà a guardarlo”

Sito del MoMA (Museum of Modern Art di New York): “Visivamente sbalorditivo, non-dogmatico, Babylon rivela un aspetto raramente visto delle rivoluzioni arabe”.

Sito del Festival Scope:Questa visione senza compromessi sul contemporaneo tunisino è da non perdere.


Quando è scoppiata la rivoluzione tunisina nessuno dei tre registi ha deciso “a caldo” di filmarne gli eventi. E dopo che la loro società di produzione Exit viene saccheggiata dalla polizia il 14 gennaio, decidono insieme al produttore Chawki Knis di andare a Choucha, un campo profughi a sette chilometri dal valico di frontiera di Ras Jdir e a tre chilometri dalla città di Ben Guerdanne (già teatro all'inizio del 2010 di una rivolta). Quasi un milione di persone di tutte le nazionalità e le lingue sono in fuga dai combattimenti tra i rivoluzionari e le truppe lealiste di Gheddafi. In Libia erano infatti presenti moltissimi migranti provenienti soprattutto dall’Africa Sub-Sahariana, che, dal punto di vista interno erano funzionali al sostenimento dell’economia libica e dal punto di vista internazionale erano funzionali al cambiamento della figura di Gheddafi che voleva passare dall’essere leader panarabo all’essere leader panafricano. Ma sin dai primi giorni delle rivolte si scatena la “caccia al nero” definiti “mercenari di Gheddafi” che scappano quindi verso la Tunisia. 
Il gruppo si propone di essere un “gruppo di auto-creazione” (in riferimento ai gruppi di auto-difesain cui si erano organizzati i tunisini), senza l'idea di girare un film ma con l’intento di “mettere gli occhi su un frammento di Tunisia che ha vissuto un tempo diverso e un evento diverso…siamo stati attratti dal campo così come andava emergendo tra due territori in rivoluzione, in una no revolution’s land….non crediamo che la rivoluzione sia un evento compatto e limitato nel tempo, al contrario è complesso e frammentato”. E mentre sono entrati in contatto col campo, i rifugiati ed il territorio circostante (non solo Choucha ma anche Zarzis, Djerba e Medenine), il film ha iniziato a prender forma, una costruzione formale che però non diventa pura osservazione perché, come hanno ribadito i registi, “non crediamo nel mito dell'oggettività, anche se  non abbiamo mai dato alcuna indicazione alle persone”.

Secondo la descrizione di uno dei registi “Questo film è una tragedia in cinque atticon una struttura in cinque parti distinte, separate da schermi neri: lo spazio prima dell'arrivo dei profughi in cui ci si sofferma sulla natura (in particolare sul deserto e sugli alberi, che osservano “come l'umanità cresce e poi distrugge se stessa) e su come essa si trasforma in base al passaggio dei profughi; l'occupazione del campo; l'organizzazione della vita della tendopoli; l'emergere di tensioni e rapporti di potere al suo interno; ciò che resta dopo la partenza dei profughiDopo una lunga sequenza iniziale su grotte e vegetazione del deserto incentrata, con primi piani temporali,su uno scarafaggio che fa rotolare una sterpaglia al rumore del vento; iniziano ad arrivare ruspe, tende e telecamere e poi giornalisti, operatori umanitari e profughi che costituiscono la singolarità plurale che attraversa la tendopoli.

Babylon tendopoliTendopoli che è la vera protagonista del film, un luogo effimero nato dal nulla in mezzo al nulla, destinato ad essere costruito per poi essere rapidamente distrutto, caratterizzato da un movimento incessante dei rifugiati, una galleria di personaggi senza alcun protagonista, che tagliano lo schermo come in una danza…Ed il movimento della danza permea di sé anche una delle sequenze più significative del film: il corteo di protesta dei bengalesi che si muove sinuoso come un serpente passandosi un corpo, non si riesce a capire se morto o svenuto; ma è presente anche nei piccoli spettacoli inscenati per passare il tempo e nella candela sotto la tenda in cui alcuni nigeriani parlano di Dio. Nel film si susseguono così inquadrature di “storie nella storia” che scivolano le une sulle altre senza dare alcun appiglio allo spettatore se non quello di lasciarsi sommergere dal flusso visivo e linguistico di un movimento effimero.Non si tratta quindi di una o più persone che raccontano lo spazio ma di uno spazio che racconta le persone inserite in un ambiente da cui traggono significato e che esalta le potenzialità delle immagini liberate dalla rigidità della parola. La scelta di raccontare attraverso la massa porta i registi ad utilizzare il campo lungo, le ombre e le sagome sfocate (come dimostra anche la locandina) per connotare esteticamente l’alienazione nella massa, alternandole sapientemente a zoom su dettagli che raccontano la vita nel campo: i momenti della preghiera e le lunghe code per il cibo rallentano il film e ben rappresentano la lentezza, fluidità e precarietà del destino e della permanenza dei migranti. Infatti il campo rappresenta un non-luogo di passaggio, anche se in realtà, a Choucha ci sono ancora diverse persone riconosciute come profughi che sono in attesa di venir “ricollocati” e 300 deboutés cioè “non-rifugiati” esclusi dal sistema di protezione ONU, che in un vero e proprio limbo giuridico aspettano lo smantellamento del campo previsto per il prossimo 30 giugno. Del campo di Choucha si è molto discusso anche nel recente “Forum di Tunisi” dove sono stati sollevate molte criticità tra cui la mancanza di assistenza giuridica nella compilazione delle domande, l'assenza di una commissione di controllo e le interferenze delle rappresentanze diplomatiche di Ciad e Nigeria; l’Onu da parte sua ha replicato proponendo ai deboutés il rimpatrio volontario assistito con pagamento del viaggio di ritorno e di una buonuscita o, in alternativa, la permanenza in territorio tunisino, con la possibilità di percorsi di inserimento professionale. 

Quando la maggior parte dei profughi se ne va, resta la tendopoli con il suo pavimento cosparso di spazzatura e con sacchetti di plastica che volano al vento, non una mera registrazione meccanica ma una costante colonna sonora che ha la capacità di esaltare le espressioni delle immagini. E visto che ogni opera d’arte si basa su una gerarchia dei mezzi utilizzati, il suono è qui al servizio di immagini ed azioni che prescindono dalla parola: del resto come ha scritto Arnheim: “Il dialogo costringe l’azione visiva a mettere in primo piano l’uomo che parla, otticamente sterile”. E l’importanza dei suoni emerge nel lungo lavoro di post-produzione: le riprese sono durate tre settimane con una trentina di ore di girato ma ci sono voluti circa dieci mesi per il montaggio. InBabylon vento parte per problemi finanziari (il film è interamente auto-prodotto), in parte perché non volevano essere risucchiati nel filone “primavera araba”, (ecco cosa mi ha scritto Ala Eddine in uno dei primi scambi di mail, presentando il film: Je note que notre film est un peu “loin” des sujets traitants du “Printemps Arabe”. Veuillez ne pas l'inclure comme un film “direct” sur “la révolution” tunisienne.) ma soprattutto per costruire il film seguendo il ritmo e la musicalità delle voci ed il lato crudo dei suoni della natura fa provare la sensazione di essere in un territorio inesplorato e sottolinea la differenza con le produzioni televisive.Babylon rompe infatti con la tradizione del cinema tunisino mainstream per queste scelte estetiche radicali, per la diffusione del materiale via Internet, per il fatto di essere autoprodotto senza sussidi statali ma anche per l’abbandono delle tematiche ormai cristallizzate (la vita sociale nella vecchia Medina, la famiglia conservatrice…) ed incentrate su tematiche sociali, che erano esattamente le stesse delle produzioni televisive delle “musalsalat” cioè delle telenovele mandate in onda durante il Ramadan per affrontare una spinosa questione politica. Il connubio tra l’accesso alle nuove tecnologie e la caduta di Ben Ali ha totalmente cambiato lo scenario sbloccando lo spazio pubblico caratterizzato dalla progressiva chiusura delle sale cinematografiche (dalle quasi duecento degli anni Settanta ne sono sopravvissute una manciata): ad esempio facendo rivivere la tradizione del cinema itinerante e realizzando una Carovana del film documentario o molti festival come quelli diRgueb o di Hergla. Ma soprattutto sono stati girati diversi film audaci e innovativi che hanno fatto molto discutere: tra questi “Anbou El Fosfato” di Samy Tlili sui lavoratori del bacino minerario di Redeyaf (e per poterlo far vedere agli abitanti della regione il regista e i suoi collaboratori hanno dovuto personalmente riaprire una sala chiusa da quasi trent’anni) e “Ni Allah, ni maître” di Nadia Al-Fani (dopo scontri, polemiche e minacce di morte, la regista ha deciso di cambiare il titolo in “Laicitè, inshallah”) sul ruolo della laicità come garante della diversità e della libertà di coscienza in una democrazia. Ma questa situazione di effervescenza e creatività cinematografica potrebbe cambiare a breve: è appena stata presentata una proposta di “Riforma per lo sviluppo del cinema e dell'audiovisivo in Tunisia” che prevede la creazione di uno sportello unico per il cinema e l’inasprimento dei requisiti richiesti alle case di produzione per accedere a forniture o sussidi. Chi contesta la legge sostiene che abbia un’ispirazione politica perchè il Governo sarebbe terrorizzato da questi nuovi cineasti che, come nel caso di Babylon, in piena autonomia girano video senza richiedere autorizzazioni o sovvenzioni statali e li condividono tramite Internet rendendoli immediatamente fruibili. Del resto che giustificazione artistica potrebbe avere la norma secondo cui le case di produzioni possono girare lungometraggi solo dopo aver girato un “numero sufficiente” di corti?!? E possono collaborare a produzioni straniere solo dopo aver raggiunto una “certa notorietà”?!? Gli oppositori puntano anche il dito sugli autori del progetto, definiti “un’accozzaglia di dinosauri e burocrati”, coinvolti nella degenerazione del cinema in Tunisia e che ora starebbero per completare l’opera svendendo quel che ne resta alla televisione e agli sponsor dei multiplex.

Macchi Monica e Paolo Castelletti

Ps. Tutte le citazioni dei registi sono state prese dal “Revue de Presse” del 14 febbraio, speditomi via mail da Slim Ala Eddine



 
 

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