Nov 23, 2024 Last Updated 10:19 AM, Oct 14, 2021

"MORIRAI A VENT'ANNI": UNA PERLA SUDANESE AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Categoria: NUOVE RECENSIONI
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You Will Die at 20 Mazin Ahmed

Di Aldo Nicosia*

Confesso di non aver mai visto, prima di Sa-tamut fi’l-‘ishrin (“Morirai a vent’anni”, 2019), di Amjad  Abu’l-‘Ala‘, alcun film sudanese. Forse potrei consolarmi al pensiero che ne ho persi solo 6 (lungometraggi di fiction). Nel mio breve saggio del 2007, Il cinema arabo, non ne ho menzionato manco uno, ma, a parziale mia discolpa, devo premettere che prima dell’avvento di youtube e altri canali internet, non era facile procurarsi i film del mondo arabo. Cercherò di rimediare nella mia prossima monografia, inshallah, se Dio vorrà.

Nonostante il clamore mediatico e il successo ottenuto dal film del giovane Abu’l-‘Ala’, con  premi e  riconoscimenti internazionali (anche all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, con un Leone al futuro per la migliore opera prima), o forse a causa di ciò, non mi sono precipitato a vederlo. Ammetto che a volte mi lascio condizionare negativamente dalla risonanza internazionale, e anche dai titoli: chissà in forza di quale meme virulento, quel “Morirai a vent’anni” mi appariva come un banale auto-spoiler. 

Ebbene, dopo averlo visto, mi sono pentito di averlo ignorato. Il film è stato per me una catartica rivelazione, e tralaltro ben calata nell’attualità, nel bel mezzo dei bombardamenti mediatici più o meno apocalittici (della  serie “Morirai di Covid-19”). Sono persino riuscito a trovare, senza alcuno sforzo, qualche parallelo tra alcuni degli interrogativi suscitati dal film e l’attualità. Ad esempio, da un lato il tema delle profezie, dall’altro quello dei responsi di una scienza medica sempre più probabilistica, ma spacciata come verità indiscutibile. Ma torniamo al film e al suo devastante incipit.

In un piccolo villaggio di una remota regione del Sudan, una donna porta in braccio il suo neonato innanzi ad uno sheikh di una confraternita sufi. Muzammil, il nome del bambino, per un imperscrutabile e immutabile decreto divino, dovrà morire al compimento dei suoi vent’anni.

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Cosa succede nella tua vita quando già da bambino ti vedi recapitare un così funesto e preciso vaticinio, con l’aggravante che nel tuo microcosmo familiare e sociale tutti ci credono e non perdono occasione di ricordartelo? Troisi avrebbe minimizzato: “Mo’ me lo segno”, ma lui era già maturo, e soprattutto non gli era stata rivelata la data di “scadenza”.

La vita della famiglia del bimbo si blocca in quell’istante. Il tempo, da quantità lineare, diventa un buco nero, un vortice che avviluppa dentro di se’ qualsiasi speranza e progetto di vita. In un villaggio alla periferia del mondo e quasi fuori dal tempo, il fatidico countdown  viene così scandito da linee, graffiti  incisi sulle pareti di una stanza buia dalla madre. 

Quest’ultima vive solo in funzione  dell’annunciata morte del figlio. Veste già di nero, diventa iperprotettiva e proibisce al figlio di svolgere la vita di un normale bambino. I compagni della scuola coranica lo prendono in giro, chiamandolo “figlio della Morte”. Il padre che ha già assistito impotente alla morte del fratello, annegato nel fiume, non ce la fa ad affrontare il pesante stillicidio dei giorni: decide così di partire lontano da moglie e figlio, con la scusa di dover cercare un lavoro più remunerativo.

Ma la cosa positiva è che, rispetto al villaggio globale, in quello sudanese, non tutti credono nella profezia dello sheikh. Squarci di pensiero non fatalista, lontano dalle superstizioni, fanno capolino qua e là.  C’è la vitalità prorompente di Na‘ima, innamorata follemente di Muzammil, pronta a sposarlo e a sognare con lui una famiglia, una casa, dei figli. Persino un’anziana donna, Nafisa, cerca di convincere la madre del ragazzo dell’assurdità di tale profezia. Ma invano, da quel vortice non si esce. Muzammil decide di impostare quel che gli rimane della sua vita solo intorno al lavoro e alla scuola coranica: impara a memoria il testo sacro, cioè diventa hafez. Non reagisce neanche alle attenzioni di Na‘ima, perché sa che sposarla  significherebbe portarsi  nella tomba  la responsabilità di doverla lasciare subito vedova.

Poco lontano dal villaggio, immersa nella quiete della boscaglia, c’è la casa di Suleiman, un regista, reietto dalla società, dedito all’alcool, ormai nostalgicamente attaccato ai ricordi di un mondo che fu. A poco a poco introduce Muzammil, che vuole arrivare casto e puro al termine dei suoi giorni, nel suo mondo fatto di foto di attrici cult del cinema egiziano e mondiale, pellicole (un omaggio di Abu’l-‘Ala’ a Chahine e a Jadallah Jabbara, il padre del cinema sudanese, da me ahimè negletto). Il giovane, di fronte alle seducenti  immagini proiettate dalla macchina da presa di Suleiman, riesce finalmente a disegnare sulle sue labbra contrite qualche timido sorriso. 

Tra le due illusioni, quella determinata dalla profezia funesta, e l’altra salutare, o almeno innocua, del grande schermo, si innesta una riflessione chiave: che cos’è la realtà? Un film in differita con un finale già scritto (maktub, destino) o un altro ancora in corso di svolgimento, in cui regista e attore si fondono in una sola persona?

Nella casa di Suleiman il giovane, hafez, fa la conoscenza di un nuovo Hafez,  ‘Abdelhalim, il mitico cantore della passione  negli anni d’oro del cinema egiziano,  melodie struggenti e irripetibili. Si impregna poi delle colonne sonore della rivoluzione sudanese (che fa poco audience nei media europei), cantata da Mohammed Wardi, mentre i suoi occhi famelici divorano i cimeli della variegata e appassionante vita di un uomo che lui non esita a considerare il suo vero padre. Sì, perché quello biologico che non ha mai conosciuto compare quando lui sta per compiere i suoi  fatidici vent’anni.

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Ad avviso di Suleiman quella sentenza di morte potrebbe rivelarsi un volano di una positiva rivoluzione: “Sai cosa farei io se mi dicessero che camperò fino a vent’anni?” : la ricetta di vita che propone al ragazzo non può non evocare una forte reazione ad anni di dittatura proibizionista e islamista di vari regimi (Numeiri, Turabi, Beshir) che hanno sconvolto la vita di generazioni di sudanesi. Il film è dichiaratamente dedicato alle vittime della negletta rivoluzione sudanese, eppure, a parte il brano summenzionato, non riesco a trovarvi riferimenti diretti. Autocensura? O forse un modo retorico per ingraziarsi le simpatie dei progressisti? Addirittura a qualcuno viene anche qualche sospetto: considerando che il film è una coproduzione europea, egiziana e sudanese, sta forse strizzando l’occhio ad un certo paternalismo, quasi auto orientalista, consapevole che i temi dell’oscurantismo religioso e culturale dei paesi arabi fanno presa  (e premi) nei festival occidentali? Come sarà stato accolto in Sudan, dal suo pubblico naturale e necessario?

Intanto, mentre Muzammil è in attesa che si compia il suo destino, senza sconti o dilazioni, e qualche spettatore occidentale si bea della presunta superiorità della sua civiltà razionalista rispetto ai retrogradi fatalisti africani, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, finanziata perlopiù dalle multinazionali del farmaco, continua a rilanciare le sue funeste profezie sulla “pandemia” in corso. Negli ultimi decenni lo ha fatto parecchie volte, grazie a conniventi mass-media. Sistematicamente, tali previsioni di orribili pandemie planetarie non si sono mai verificate (per fortuna nostra e sfortuna dei suoi sponsor). 

Ora, tornando al film, mi chiedo: sono più umane e perdonabili le superstizioni, condivise senza coercizione né alcuna campagna “informativa”, o le previsioni di uno presunto “scientismo” che non ne azzecca una e non accetta contraddittorio?

Per dimenticare gli ormai prevedibili presagi che rimbombano in tv, meglio continuare a godersi  le imprevedibili peripezie di Muzammil, sullo sfondo  di una Natura sudanese mozzafiato che ispira un’infinita armonia col creato. Nonostante tutto.

* Docente di lingua e letteratura araba all'università di Bari, Aldo Nicosia è autore de Il cinema arabo (Carocci,2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci,2014). Oltre ad articoli sulla settima arte, si è occupato di dialettologia, sociolinguistica e traduttologia nell'ambito del settore arabistico.

 

 

 
 

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